In politica da tredici anni, l’ex sostituto procuratore di Bari Michele Emiliano dovrà difendersi dall’accusa di aver violato la deontologia dei magistrati solo tra qualche mese, in coincidenza con il suo momento di celebrità nazionale.
In aspettativa dalla magistratura dalla fine del 2003, quando si candidò a sindaco di Bari (e vinse), Emiliano non è rientrato nei ruoli neanche nel periodo (meno di una anno) trascorso tra la fine del mandato di sindaco e quello di presidente della Regione Puglia, grazie a un provvidenziale incarico di assessore in un comune del foggiano.

Non sono però gli incarichi elettivi il suo problema, ma quelli direttamente di partito. Emiliano infatti è stato segretario del Pd pugliese per due anni dal 2007 e poi per altri due anni dal 2014. Eppure solo alla fine di quell’anno il procuratore generale della Cassazione decise di aprire nei suoi confronti un procedimento disciplinare per la evidente violazione del divieto a iscriversi ai partiti politici. Divieto che grava sulle toghe in virtù di Costituzione e legge di attuazione (la riforma Castelli dell’ordinamento giudiziario). Ci sono voluti più di due anni da allora per arrivare alla contestazione formale del Csm, che era prevista a inizio febbraio ma è slittata a maggio perché Emiliano ha cambiato difensore, scegliendo di affidarsi al procuratore capo di Torino Armando Spataro. Tempi infiniti, eppure del tutto leciti, perché il Consiglio superiore ha due anni per fissare l’udienza da quando la procura generale chiede di procedere contro un magistrato

Emiliano, specialmente adesso che ha annunciato di volersi candidare alla segreteria nazionale del Pd – ma la vicenda è in evoluzione – deve difendersi dai rilievi critici del Pg di Cassazione. Sotto accusa sono gli incarichi nel Pd, che «presuppongono per statuto l’iscrizione al partito politico», e non i mandati istituzionali di sindaco prima e di presidente di regione poi. Anche perché gli incarichi del Pd «non sono coessenziali all’espletamento dei mandati» elettorali.
Non è la prima volta che Emiliano riceve critiche per il suo doppio incarico, accadde nel 2003 quando decise di candidarsi alla guida della stessa città dove esercitava come magistrato antimafia e di nuovo dieci anni più tardi, quando ad accusarlo di ignorare le leggi dello stato fu Massimo D’Alema (che allora sosteneva Cuperlo contro Emiliano che stava con Renzi). E non è neanche vero che Emiliano è «l’unico magistrato nella storia della repubblica italiana al quale la procura generale della Cassazione contesta l’iscrizione a un partito politico nonostante non svolga le funzioni di magistrato da 13 anni», come ha detto lui stesso. La questione infatti si era posta immediatamente dopo l’approvazione della riforma Castelli per l’ex parlamentare Luigi Bobbio, diventato presidente della federazione napoletana di An. In quel caso il Csm sollevò persino la questione di costituzionalità proprio sul punto richiamato da Emiliano, e la Consulta concluse che è pienamente legittimo che il divieto di iscrizione ai partiti si applichi anche ai magistrati in aspettativa. Perché il dovere di imparzialità del magistrato vale «in ogni momento della sua vita professionale».

Emiliano del resto poteva dimettersi da magistrato e non lo ha fatto (anche se ha ventilato l’ipotesi nei momenti di euforia seguiti alla vittoria di Renzi alle primarie del 2013). L’addio alla toga è anche la massima sanzione che rischia nel «processo» davanti alla commissione disciplinare del Csm (la «rimozione»). In teoria, in pratica è più prevedibile un semplice «ammonimento» come capitò a Bobbio. A meno che a chiedere nei suoi confronti una particolare severità non sia il ministro della giustizia. E cioè Andrea Orlando.