Chiunque sia solito frequentare esposizioni di ‘antichi maestri’ e ricorra alla vecchia consuetudine di farsi accompagnare a casa dai cataloghi, sa bene quanto occorra confrontare con i saggi e le schede di volumi siffatti le informazioni fornite da didascalie e pannelli introduttivi; ché spesso simili apparati, indispensabili per una virtuosa divulgazione scientifica, sono il frutto di una mediazione fra esigenze curatoriali e obiettivi approvati dagli educational services dei musei o delle istituzioni ospitanti.

Così, il visitatore che alla National Gallery di Londra faccia il suo ingresso nella rassegna Michelangelo & Sebastiano (in calendario fino al 25 giugno, per cura di Matthias Wivel, insieme a Paul Joannides e Costanza Barbieri) potrebbe essere tentato di dedicare pochi attimi all’Introduzione impressa all’entrata del percorso: e invece il fatto che il medesimo testo si trovi in esergo al saggio dello stesso Wivel, nel libro pubblicato per l’occasione (con la differenza di qualche sottolineatura a effetto), la legittima nelle forme di un giusto introibo.

In ultimo dissenso e acrimonia

Vi si racconta di come l’iniziativa sia pensata per illustrare «la storia di un’amicizia», quella appunto fra il pittore nativo di Venezia, più giovane del Buonarroti di appena dieci anni, e il genio della Sistina, il quale nei suoi viaggi fra Firenze e Roma trovò un sodale in Luciani (questo il nome di famiglia di Sebastiano, il cui epiteto viene dalla carica di ‘piombatore’ ottenuta nel 1531 presso la burocrazia apostolica), pronto a intervenire nelle faccende pratiche che ne travagliavano la carriera: «un racconto di cameratismo, reciproche influenze e, in ultimo, di dissenso, di acrimonia».

Un tale palinsesto annuncia – seppure con toni intimistici – lo sviluppo della mostra su sei sale, giocate nelle tinte dell’azzurro cartazucchero e del grigio grafite (quasi una citazione di certi sfondi cupi del Piombo): si tratta di una sequenza – modulata secondo un ritmo scandito e eloquente – che si costituisce attraverso spazi in dialogo coll’oeuvre dei due artisti, i quali polarizzano la struttura di ogni singolo ambiente o si rispondono dall’uno all’altro, come in un’eco o nel riflesso di specchi affrontati.

Liberato da una rigida scansione temporale, il percorso si inaugura così con le «origini» di Sebastiano e Michelangelo (per nascita ‘geograficamente’ distanti), collocando su due pareti contrapposte il giovanile, incompiuto Giudizio di Salomone del Luciani e il non-finito del Tondo Taddei in trasferta dalla Royal Academy: un confronto, se si vuole, ‘da manuale’ ma di grande effetto, sottilmente allusivo – anche sul piano delle tecniche – per lo stato di abbozzo condiviso dalle opere. Prosegue poi con un altro ‘paragone’ esemplare, ancora impostato sul parallelo fra pittura e scultura (altro fil rouge dell’esposizione): la Pietà di Viterbo, una pala d’altare realizzata dal Piombo nel 1512-’16, consuona così con quella vaticana del Buonarroti, che la precede di poco meno di un ventennio, evocata grazie a un gesso moderno di ottima patina. Non mancano i disegni, disposti in meditata prospettiva con la Pietà, che certo servirono al veneto da indicazioni, offertegli dal maestro, per la messa a punto della sua «icona moderna»; e d’altronde sono perfettamente leggibili, grazie a un’illuminazione giudiziosa, gli schizzi riferiti alla mano dei due artisti, vergati sul retro della tavola viterbese, nei quali Sebastiano si prova perfino in esercizi d’après Michelangelo. Le sale seguenti parlano l’una all’altra.

La terza è consacrata alla monumentale pala terminata dal Luciani per Narbonne, la Resurrezione di Lazzaro commessagli nel 1516 dal cardinal Giulio de’ Medici in rivalità con Raffaello e per la quale decisive furono ancora una volta le invenzioni donate dal Buonarroti: se lo spazio esibisce, ai lati dell’ancona, alcuni fra questi ‘pensieri’ condivisi (ad esempio lo studio del British per la figura del revenant evangelico), è tuttavia con la stanza successiva che esso cerca una conversazione. Seguono infatti – con sorprendente colpo d’occhio – i due Cristi portacroce che sillabano il processo seguito da Michelangelo per la composizione di un Salvatore, elaborato dal 1512 per Santa Maria sopra Minerva: un primo abbozzo, abbandonato per un vizio del marmo e oggi nella chiesa dei Silvestrini a Bassano Romano (con i segni evidente di una tarda rilavorazione); l’opera conclusa, anch’essa a Londra grazie al ricorso a un calco ottocentesco. Un simile corpus – le sculture di Michelangelo, la pala di Sebastiano, cui vanno associate le creazioni richiestegli attorno al 1516 da Jéronimo de Vich y Valterra, ambasciatore spagnolo nell’Urbe – si consegna come il nodo concettuale dell’intero progetto. Vi si intende infatti sintetizzare il contributo offerto dalla coppia – un veneto, un toscano – alla nascita dello «stile romanista» (secondo una formula allusa da Hermann Voss nel suo Die Malerei der Spätrenaissance in Rom und Florenz del 1920), le premesse cioè alla cosmopolita «arte clementina» (stando alla definizione di André Chastel) che fiorì nella città pontificia fino al Sacco del 1527 insieme al papato di Clemente VII: e, in questa prospettiva, la scelta del Cristo della Minerva è giustificata dal fatto che il Luciani contribuì al collocamento della statua, spedita da Firenze.

Intorno alla Cappella Borgherini

L’itinerario, non a caso, prosegue con un’altra collaborazione, sostanziale nelle modalità e nei risultati. La quinta sala si articola infatti attorno alla Cappella Borgherini, eseguita dal Piombo in San Pietro in Montorio fra il ’16 e il ’24 – partendo da alcuni suggerimenti michelangioleschi – su richiesta del banchiere Pierfrancesco, il quale è ritratto alla National in un quadro da San Diego e (secondo un’ipotesi consolidata) in una Sacra Conversazione della galleria. La copia fotografica in scala 1 a 1 dell’intero complesso è istruttiva accanto ai ‘materiali di lavoro’ di mano del Piombo e di Michelangelo collazionati con scrupolo e acume; e tuttavia l’illusionistica fedeltà della replica lascia a prima vista disorientati per l’ambiguo statuto dell’installazione: rappresenterà comunque un precedente in vista di analoghi progetti per l’efficacia della resa delle immagini dipinte.

L’ultima sala si fregia di un altro ospite illustre, la Visitazione in prestito dal Louvre, donata probabilmente alla Regina di Francia, Claude, dopo il 1519: un’opera di impegno, con figure quasi al naturale, che avrebbe forse necessitato di un diverso bilanciamento rispetto al pezzo scelto per concludere la traiettoria buonarrotiana della mostra, il pur drammatico schizzo a matita rossa e nera proveniente da Vienna con lo studio per un Cristo morto. Si sarebbe magari potuto alludere al tema, paralello, delle collaborazioni con artisti diversi, che si associarono a Sebastiano nel ruolo di traduttori delle invenzioni del maestro; e presentare uno dei testimoni dell’invenzione per un Noli me tangere: composizione che – affidata a Pontormo – avrebbe da una parte funzionato in termini di cronologia, dall’altra sarebbe potuta servire da suggerimento per il tipo di portato che ebbe sul linguaggio michelangiolesco la pittura dell’amico.

Tuttavia, la sfida londinese deve considerarsi brillantemente superata nella sua esemplificazione di uno dei più duraturi e complessi sodalizi artistici del Cinquecento italiano: più ricca, almeno in termini di ambiziose macchine compositive, rispetto all’iniziativa dedicata al Piombo nel 2008 fra Roma e Berlino, Michelangelo & Sebastiano offre infatti un caleidoscopio rutilante di spunti visivi necessari per riflettere sul rapporto dei due artisti; spunti composti sempre con sicura sapienza di allestimento.

Anche il catalogo, sebbene ‘altro’ in tutto rispetto all’organizzazione della mostra e tradizionalmente concepito secondo un nitido ordine cronologico, include contributi di rilievo per l’approfondimento dell’argomento: in particolare le riflessioni di Wivel e di Barbieri, accompagnate da saggi di Timothy Verdon e Piers Baker-Bates.