New York, novembre 2017. Lunedì 6 Daniel H. Weiss, presidente e CEO del Met, invita un gruppo di privilegiati alla preview della straordinaria mostra dedicata all’opera grafica di Michelangelo. Dopo una settimana esatta, il giorno 13, si aprono i battenti dell’esposizione anche al pubblico. Mercoledì 15 i mandatari del principe saudita Bader bin Abdullah bin Mohammed bin Farhan al-Saud acquistano da Christie’s un Salvator Mundi in condizioni precarie per la cifra astronomica di 450,3 milioni di dollari, tasse incluse: il valore del dipinto sarebbe giustificato dall’attribuzione a Leonardo da Vinci, una proposta recente ma già confermata dai curatori della strepitosa mostra allestita nel 2011-’12 dalla National Gallery di Londra – Leonardo da Vinci: Painter at the Court of Milan – dove la tavola (65,7×45,7 cm.) venne esposta come opera pienamente autografa. Tuttavia, valutare un quadro restaurato in molte sue parti – in questo caso dalle mani esperte di Dianne Dwyer Modestini – non è semplice e non ci si deve stupire che le opinioni degli studiosi divergano. Carmen Bambach, per esempio, tra i maggiori esperti di grafica rinascimentale nonché Curator of Italian and Spanish drawings al Met, dove ha allestito l’odierna esposizione dedicata ai disegni di Michelangelo, la giudica un prodotto della collaborazione tra Leonardo e uno dei suoi allievi prediletti, certamente il più dotato, Giovanni Antonio Boltraffio. A dire il vero, sul dipinto non si scorgono tracce della sua mano, ma la proposta indica quanto sia incerto un riferimento della tavola saudita al solo Leonardo.
I dati raccolti sono utili per mettere a fuoco due problemi: uno di politica culturale e l’altro collegato in modo specifico alla mostra su Michelangelo promossa dal Met. Quanto al primo aspetto, la coincidenza temporale e geografica di una delle esposizioni più opulente mai allestite con la vendita del più costoso dipinto della storia potrebbe far passare il messaggio del buono stato di salute degli studi sull’arte del rinascimento italiano. Vero è il contrario. Il 2017 sarà ricordato come il canto del cigno, irripetibile, di una storia dell’arte ancora plasmata dalla monografia e dal culto della personalità. La realtà è ben altra: da tempo ormai le università americane riducono il numero delle cattedre dedicate allo studio dell’arte occidentale; da Harvard a Stanford, dalla East alla West Coast si appaiano gli studi rinascimentali e barocchi, aggiungendo ai profili di insegnamento pennellate di storia globale. Questa tendenza trova la sua giustificazione nell’interesse crescente degli studenti, anche in Italia, per l’arte contemporanea, dominatrice del mercato. Un tocco di genio di Jussi Pylkkänen, Chef di Christie’s, che non si è lasciato sfuggire l’opportunità di guidare in persona l’asta del secolo, è stato quello di battere il Salvator Mundi in una vendita dedicata alla produzione novecentesca. Nella stessa sala in cui si scriveva la storia del mercato artistico, è passata, tra le altre, anche un’opera imponente di Andy Warhol: realizzata nel 1986, ispirata dal Cenacolo leonardiano e intitolata Sixty Last Suppers (294,6×998,2 cm.) è stata usata come strumento per creare un ponte tra passato e presente.
La scurrilità dell’evento newyorchese, tuttavia, mette in luce un altro fenomeno, molto più importante: nel momento in cui la società occidentale promuove una «globalizzazione» che talvolta maschera atteggiamenti neocoloniali (si vedano le polemiche cresciute intorno al nascente Humboldt Forum a Berlino oppure all’inaugurazione recente del Louvre di Abu Dhabi progettato da Jean Nouvel), l’altra parte del mondo risponde con un gesto inatteso ma profondamente razionale. In molti hanno letto nell’acquisto del principe saudita la prova di un’assimilazione inconsapevole di una stessa démarche. Ma il messaggio sembra essere un altro: se voi vi appropriate del nostro patrimonio culturale, che vi guardate bene dal restituirci, noi ci appropriamo del vostro. Al lettore la scelta tra una prospettiva di rispetto reciproco oppure di espansione aggressiva.
La mostra dei disegni di Michelangelo – che resterà aperta fino al 12 febbraio – va letta in questo contesto politico. A un primo livello l’esposizione narra per immagini la vita lunga e intensa dell’artista, dai primi schizzi nella bottega del Ghirlandaio ai contatti con l’ambiente cresciuto intorno a Lorenzo il Magnifico sino alle ultime Pietà e alle architetture romane. La figura di Michelangelo vi è sempre contestualizzata, nei rapporti con la sua cerchia, i colleghi, gli amici letterati e i committenti. Su un altro piano, quello dei conoscitori, la mostra è costruita intorno a due altri poli: il filo rosso che collega le otto sezioni è il disegno, non tanto o non solo nella forma rievocata dal titolo – Michelangelo: Divine Draftsman & Designer – che rimanda al principale strumento ideologico delle Vite vasariane su cui si è scritto sino alla noia, ma soprattutto nei suoi lati tecnici, qui scandagliati in ogni minimo particolare; mentre il secondo tema trasversale è il discorso sulla connoisseurship, sui suoi fondamenti e sviluppi tecnologici, sul suo valore metodologico.
Ogni fase, ogni progetto del percorso di Michelangelo è analizzato con grande rigore filologico in un libro che oggi costituisce l’opera più aggiornata e completa sull’artista. La curatrice Carmen Bambach, infatti, ha preferito la narrazione continua del volume alla frammentarietà delle schede di un catalogo. Pertanto, i crudi dati tecnici delle opere sono elencati in coda in un’appendice (pp. 290-314) che precede l’apparato delle note, risultato stupefacente di un’erudizione capillare. Qui si trovano perle per gli specialisti poiché ogni foglio del corpus michelangiolesco è dissezionato per proporre, non di rado, nuove cronologie e attribuzioni. Tale ricchezza non va persa nel testo, che insiste ancora di più su una lettura materica dell’opera grafica del Buonarroti. Per esempio, in un disegno che rappresenta il riposo durante la fuga in Egitto, oggi nella collezione del Getty a Los Angeles, la forma piramidale del gruppo centrale è tracciata sul foglio con uno stilo e successivamente elaborata con tratti a matita nera tendente al grigio. Solo in un secondo tempo Michelangelo vi schizza a penna la testa di Maria in una posizione frontale rivolta verso lo spettatore per poi ridisegnarla di tre quarti, seguendo una formula iconografica più convenzionale, e ridefinisce ulteriormente i contorni del volto della Vergine con una matita rossa. Infine, per suggerire il lustro marmoreo del gruppo, intensifica la densità delle differenti tecniche mescolando l’inchiostro della penna con la matita rossa e tracce scure d’acquerello. Tanta precisione analitica non è fine a se stessa, ma ha lo scopo di chiarire la funzione dell’opera grafica, perché solo se riusciamo a capire le intenzioni dell’artista potremo esprimere dei giudizi fondati sull’autografia di un foglio. Nel suo libro Bambach ritorna spesso su questo concetto e la possibilità di osservare dal vivo il suo metodo ermeneutico è di fondamentale importanza per farsi un’opinione sulla correttezza delle analisi. Questo habitus intellettuale non è una dichiarazione d’intenti astratta, bensì serve a polemizzare con chi si ostina a espungere dal corpus dei disegni di Michelangelo numerosi capolavori. Il bersaglio, a volte apertamente dichiarato, è la storiografia tedesca degli ultimi anni, da Frank Zöllner e Thomas Pöpper ad Andreas Schumacher, che ha seguito le indicazioni suggerite da Alexander Perrig sin dalla fine degli anni settanta nei suoi Michelangelo Studien. Il sarcasmo di Perrig non ha giovato alla diffusione delle sue idee e alcune proposte sono francamente sconcertanti, ma le sue indicazioni, già riassunte nel volume intitolato Michelangelo’s Drawings. The Science of Attribution (1991), meriterebbero di essere rese più accessibili nella loro complessità anche al pubblico italiano.
Carmen Bambach sembra avere, però, un secondo bersaglio: gli studiosi più scettici nei confronti dell’attribuzione al giovanissimo Michelangelo – tredicenne o quattordicenne – de Le tentazioni di Sant’Antonio, una tavola (47×35 cm.) già ricordata da Vasari e derivata da un’incisione di Martin Schongauer. Riemersa a un’asta londinese nel 1960 e rimasta invenduta, oggi si trova nel Kimbell Art Museum di Fort Worth in Texas ed è diventata l’attrazione principale della mostra, l’oggetto di fronte al quale i visitatori si soffermano più a lungo. Bambach si appella di nuovo alla serietà di chi pratica il metodo del conoscitore, invocando a ragione la necessità di indagini scientifiche rigorose. In questo caso le riprese riflettografiche hanno rivelato la presenza di uno schizzo che, secondo la curatrice, rappresenterebbe due figurine sul ponteggio eretto per affrescare la cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella dove il giovane Michelangelo fu attivo come aiuto della bottega del Ghirlandaio, venendo così a confermare un aneddoto narrato nelle Vite vasariane. Lo stile corsivo di questo (secondo) underdrawing, che si troverebbe «probabilmente» in uno strato al di sotto del primo underdrawing, corrisponderebbe a quello impiegato da Buonarroti in schizzi assai più tardi. Tuttavia è bene ricordare come le riprese riflettografiche siano effettuate in particolari condizioni e come le immagini vengano per così dire «catturate» da tecnici che le rielaborano. Claire Barry, direttrice del dipartimento di restauro del museo texano e autrice di un breve saggio posto in appendice al volume, elenca con precisione i mezzi tecnici con cui «il mosaico riflettografico è stato fabbricato» utilizzando un filtro posizionato a sedici pollici dal dipinto e montando le tessere dell’immagine con un software di fotoritocco. Qualunque giudizio si voglia dare di questo schizzo e della sua interpretazione, quel che si vede oggi in superficie è un dipinto di bassa qualità, prodotto mediocre della cerchia ghirlandaiesca. Come ebbe a scrivere Michael Hirst, il grande studioso di Michelangelo recentemente scomparso: «sarebbe deludente se si trattasse (di un’opera) del giovanissimo Michelangelo; è quasi certamente un prodotto della bottega del Ghirlandaio».
Al di là dei singoli problemi ancora aperti, la mostra del Met resterà una pietra miliare degli studi michelangioleschi, un’occasione irripetibile per studiare e mettere a confronto quasi 250 manufatti prodotti dall’artista e dal suo entourage, provenienti da circa cinquanta istituzioni diverse. Che Carmen Bambach sia riuscita nell’intento di riunirle a New York è un prova del grande rispetto goduto dalla studiosa da parte della comunità scientifica internazionale. La fiducia è stata ripagata. Il solo rammarico consiste nel fatto che il volume sontuosamente illustrato non potrà mai rispecchiare le emozioni e i cortocircuiti mentali vissuti a contatto con gli originali. Ma questo è il destino di ogni impresa effimera e se non sarà facile rivedere riuniti nella stessa sala quasi tutti i disegni preparatori per la volta e le lunette della Sistina messi a confronto con una riproduzione fotografica del ciclo in scala 1:4, ognuno in corrispondenza della figura affrescata, i futuri lettori godranno pur sempre del vantaggio di poter ritornare agli originali con un bagaglio di conoscenze inedite che solo questa splendida mostra ha reso possibili.