Era nato Mischa Subotzki Michel Subor, figlio di una famiglia di esuli russi, il padre era un ingegnere moscovita, la madre veniva dall’Azerbajan, nella Parigi degli anni Cinquanta che si era da poco lasciata alle spalle la guerra questo ragazzo bello, con l’espressione intensa un po’ da attore hollywoodiano dell’epoca arriva presto sui set. Ha vent’anni, è il 1955 – era nato nel 1935 – quando inizia a fare qualche comparsa qua e là finché nel 1959 viene chiamato per sostituire Serge Reggiani al Theatre de la Reinassance, dove va in scena Les Séquestres d’Altona (I sequestrati di Altona) di Jean-Paul Sartre con la regia di François Darbon. Una coincidenza che cambierà la sua vita.

IN PLATEA quella sera c’è Jean Luc Godard, sta cercando qualcuno per il suo nuovo film Le petit soldat, storia di un giovane disertore dell’esercito francese, Bruno Forestier, che finisce nelle file dell’Oas (l’organizzazione paramilitare clandestina che opera in Algeria e in Francia contro l’indipendenza algerina con attentati e omicidi,ndr) e viene costretto a uccidere. Sono appunto gli anni della guerra di indipendenza in Algeria, quel personaggio che lo stesso Godard nel 1960 definirà in una intervista a «Le Monde» « un uomo di destra e di sinistra al tempo stesso perché è un sentimentale», a Subor si incolla addosso. È un ruolo scomodo, molto diverso dal Belmondo di A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro), uscito appena poco prima, e che era stato un grandissimo successo anche commerciale: Bruno Forestier è un disertore, è pronto a sostenere un gruppo di estrema destra mentre la sua ragazza, interpretata da Anna Karina, milita per l’Fnl, il Fronte di liberazione nazionale dell’Algeria, inoltre Godard parla apertamente dell’uso della tortura da parte delle forze francesi nel racconto secco che in voce fuori campo fa Subor. Le petit soldat rimarrà bloccato in Francia fino al 1963, una censura voluta dall’allora ministro dell’Informazione Louis Terrenoire perché «nel film l’azione della Francia in Algeria appariva spogliata dei suoi ideali mentre la causa della ribellione era esaltata e difesa …».

«Gli attori io li disprezzo. Se gli dici di ridere,ridono. Se gli dici di piangere, piangono. Se gli dici di camminare a quattro zampe lo fanno. Tutto questo lo trovo grottesco» diceva Subor nel film. Una provocazione – e del resto lo fu anche quella parte che gli aveva offerto una grande possibilità ma era diventata al tempo stesso una specie di dannazione. Lui però era un attore speciale,anticonformista, presenza carismatica nella fisicità e nei gesti, capace di esprimere emozioni modulando irrequietezza e mistero. Nel 1960 eccolo accanto a Brigitte Bardot in La Bride sur le cou (A briglia sciolta) commedia di Roger Vadim, mentre François Truffaut vuole la sua voce come narratore di Jules e Jim (1961). Lo scoprono anche sui set internazionali, Hitchock lo chiama in Topaz (1969) e qualche anno prima (1965) è nel film di Clive Donner What’s New Pussycat? (Ciao Pussycat). Intanto ha vissuto un’altra avventura difficile, e pure un po’ folle, stavolta insieme a Paul Gégauff, sceneggiatore della Nouvelle Vague che chiama Sabor per il suo unico film da regista, Le Reflux (Il fuoco nella carne)ispirato a Stevenson, le vite di tre avventurieri perduti a Tahiti che Gégauff vuole girare nella Polinesia francese, e che faticherà a terminare tra questioni di diritti e un set faticosissimo.

NEGLI ANNI Ottanta Subor lavora insieme a Gerard Blain, anche lui attore oltreche regista, realizzano Le rebelle (1980), e vent’anni dopo Ansi-soit-il. Nel mezzo ci sono dei buchi, abbandoni, stanchezza, Subor si allontana dai set. Nel 1999, però l’incontro tra Subor e Claire Denis lo rilancia: Denis lo vuole per Beau Travail, il ruolo è quello di un legionario a Gibuti che ricorda il suo esordio godardiano. Con Denis girano quattro film tra cui White Material (2009) e L’intrus (2004) nel quale Subor intepreta un uomo in attesa di un nuovo cuore. «Credo che Michel aveva la speranza di incontrare il suo ideale, l’origine della rabbia in cui si trovava – ha detto la regista a «Le Monde» – Quando l’ho cercato per Beau Travail, viveva in una casa nel mezzo della foresta con un cane. Faceva credere che la sua vita era altrove, nei suoi sogni».