A memoria di rosa non è mai morto un giardiniere, scriveva Fontenelle. Le scienze ci fanno oggi accedere ad una scala temporale che relega ad un piccolo frammento la breve avventura delle civiltà della scrittura. Il mosaico del nostro DNA conserva tracce che ci riportano a più di tre miliardi di anni orsono, quando la vita cominciò il suo cammino sulla Terra, anch’essa esito contingente dell’evoluzione fisica dell’Universo.
Una filosofia della storia è il sottotitolo di Darwin, Napoleone e il Samaritano (Bollati Boringhieri, traduzione di Chiara Tartarini, pp. 204, euro 16) in cui Michel Serres iscrive il percorso dell’umanità nel Grande Racconto che l’enciclopedia dispiega a partire da ciò che per semplicità chiamiamo Big Bang. Una cronopedia più che una Enciclopedia: il flusso temporale accompagna tutte le cose del mondo ed ogni scienza compie datazioni, scandisce le fasi di un processo.

LA STORIA DELL’UMANITÀ prosegue il cammino dell’evoluzione e ne conserva la morfologia: sul grande numero – di particelle, cellule, individui e specie – in preda ad un’agitazione browniana, eventi aleatori producono biforcazioni dagli esiti imprevedibili, fluttuazioni caotiche danno vita a sistemi contingenti. Il tempo della storia e dell’evoluzione non fluisce né scorre, piuttosto percola, come fa un fluido che passa attraverso un filtro, un rivolo d’acqua fra le pietre; ogni passaggio apre una direzione che modifica l’orientamento del flusso.
Se la storia inizia con l’invenzione della scrittura, la sua origine risale al Big Bang.

La metafora galileiana del libro della natura ha ormai assunto un senso rigoroso: tutte le cose scrivono, gli organismi trasmettono il loro codice genetico, le cose inerti emettono e ricevono messaggi di cui conservano memoria. Ogni cosa è una tavoletta di cera, un palinsesto: le onde e il vento lasciano tracce sulle coste rocciose, lo scorrere dell’acqua leviga la pietra. Cinquant’anni orsono, negli scritti dedicati ad Ermes/Mercurio, il messaggero degli dei, Serres poneva al centro dei saperi e delle pratiche contemporanee la nozione di comunicazione: le cose si scambiano informazioni, il Dio del nuovo Pantheon è un decifratore di messaggi. Ogni scienza è una crittografia: le scienze «dure» interpretano le impronte lasciate dalle cose inerti, l’esplosione da cui l’universo ha avuto origine, i fossili sulle pareti rocciose, come fanno le scienze «dolci» (filologia, storia) che interpretano i testi e i resti delle civiltà umane.
Nelle Lezioni americane, Italo Calvino affidava alla letteratura il compito di «far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra».

È UN PROGETTO che risuona in Biogea (Asterios, traduzione e postfazione di Francesco Bellusci, pp. 158, euro 20,00) dove Serres si chiede: «Come potrebbero le mie parole lasciar parlare, senza di me, il mondo senza parola? Posso cancellarmi abbastanza da lasciarlo suonare?». I capitoli di Biogea, evocando una festa dell’antica Roma, Mundus patet, cioè il mondo si schiude, cercano di dar voce ai luoghi in cui la terra spalanca le sue porte, dalla bocca dell’Etna alle montagne dell’Himalaya, dal fiume Garonna alle acque del Mediterraneo, solcate al tempo della Scuola militare in marina. Da allora Serres ha inseguito una filosofia non sottomessa alla logica della messa a morte che ha governato quel succedersi di lacrime e stragi che è stata la nostra storia.

OLTRE AI MILIONI DI MORTI delle guerre, la nostra specie ha condotto fin dall’origine una guerra mondiale, quella che ha distrutto il paesaggio variegato dell’ambiente terrestre. Dal tempo di Hiroshima, vero atto di nascita della nostra contemporaneità, l’antica finitudine dell’uomo di fronte all’onnipotenza della Natura si è trasformata in un potere illimitato di distruzione di un mondo fragile. Per far pace fra gli uomini, la modernità ha inventato l’idea del contratto, ha escogitato forme di rappresentanza. È tempo che anche la Biogea, l’ecosfera terrestre, argomenta Serres, abbia i suoi portavoce in un’assemblea planetaria, per stilare un contratto naturale che, al posto della relazione parassitaria, stabilisca un patto di simbiosi fra uomo e natura.
Darwin, Napoleone e il Samaritano proclama con inusuale fiducia la fine dell’epoca segnata dal dominio della morte, dalla tanatocrazia che trova in Napoleone la sua espressione emblematica.

L’IDEALE EROICO e sanguinario, cantato in quello che Simone Weil (l’unico filosofo che mi abbia ispirato, ha scritto Serres) chiamava il poema della forza, cioè l’Iliade, trova sempre meno seguaci in Europa, la prima comunità dell’intera storia che ha vissuto settant’anni in pace. Siamo entrati in un’era anti-darwiniana, lottiamo contro la selezione proteggendo i deboli, dando corpo alla speranza di Simone Weil, l’avvento del regno della debolezza.

IL MEDICO rimpiazza il guerriero: cominciamo a pensare che non sia lo schema dialettico, lo scontro servo/signore, il motore della storia, ma la cura, debole e silenziosa, che combatte lo strepito dei violenti diffuso dai media. Il Samaritano, chino sullo straniero sofferente, sostituisce il male banale dell’uomo indotto ad uccidere per addestramento mimetico ad un gruppo o per obbedienza all’autorità.

L’ETÀ DOLCE (soft) vede prevalere le basse energie che consentono una democrazia del sapere, un accesso diffuso all’informazione. Siamo entrati in uno spazio nuovo, il virtuale privo delle frontiere che scatenano conflitti; viviamo nella prossimità generalizzata, dove tutti sono potenzialmente inclusi, dove non c’è più un sacro suolo da difendere. Non è forse questa l’Utopia, l’assenza di luogo?