Sua Santità Piccoli, dopo due settimane da Papa sugli schermi francesi, aveva ricevuto al Festival du cinéma italien a Annecy un’altra investitura: quella di “acteur italien”. La personale che gli aveva organizzato Jean Gili, direttore fino all’anno scorso della rassegna in Alta Savoia, comprendeva i titoli d’autore italiano con lui protagonista: oltre a Habemus Papam, Salto nel vuoto di Marco Bellocchio, La compagna di viaggio di Peter Del Monte e un mini-campionario, da La cagna a La grande abbuffata, del cinema di Marco Ferreri di cui è stato uno dei complici più preziosi e fedeli. « Piccoli – spiegava Gili – ha sviluppato negli anni un’ampia gamma interpretativa. È anche grazie alla carriera italiana che ha potuto manifestare in tutta l’estensione il suo talento, ribadendo la capacità di scivolar dentro personaggi d’ogni genere, pure i più impensabili e inadatti. Così è uscito dallo stereotipo seriale di ruoli di seduttore in cui era stato troppo a lungo relegato ». Rimane comunque, di quel periodo, una perla rara, il televisivo Dom Juan ou le Festin de pierre (1965) di Marcel Bluwal, con uno scintillante Sganarello di Claude Brasseur, cui ha opportunamente reso omaggio in giugno, in una sala strapiena, lo Champs-Elisées Film Festival a Parigi.

Sugli elogi, rincarerà poi la dose Nanni Moretti, incontratosi con l’attore all’inaugurazione straripante della sua personale alla Cinémathèque Française, in cui tra l’altro ricorderà di avere, incorreggibile, sottoposto il mostro sacro del cinema, a 86 anni, a un provino, neanche fosse un debuttante, prima di assegnargli la parte del papa in crisi di vocazione : « Piccoli è uno di quei pochi attori che, pur calandosi nel personaggio, sanno trasmettergli l’impronta della propria personalità. È successo con Papa Melville in Habemus Papam: Piccoli lo ha fatto crescere, arricchendo il film, giorno dopo giorno, in modo inatteso »

Invidiato marito di Juliette Gréco (dal 1966 al 1977), da sempre politicamente engagé a sinistra, con prese di posizione spesso clamorose contro il Front national, attore per i registi più grandi, docile ma imperioso colosso dello schermo e della scena, amato in Italia per lo speciale charme d’interprete sobrio e insinuante, astutamente sotterraneo, Michel Piccoli, 92 anni in dicembre, nutre a sua volta un’adorazione personale per l’Italia e i suoi attori: in particolare, come ha rivelato alla prima Festa del cinema di Roma, per Enzo Iannacci, con cui ha lavorato nell’Udienza. Grazie all’Italia, ha avuto la prima benedizione di miglior interprete maschile, al Festival di Cannes nel 1980 per Salto nel vuoto. Sia da giovane che da anziano accanto ai nuovi autori, anche i più impervi, da Jacques Doillon a Léos Carax (da Mauvais sang a Holy Motors) e – prima di passare lui stesso dietro la cinepresa – sempre disponibile all’avventura di neoregisti, da Luciano Tovoli a Sergio Castellitto, non ha mai esitato a mettere a rischio la sua immagine di gigante benevolo in ruoli provocatori o indisponenti.

Qual è il suo segreto, Michel Piccoli?

Con i registi con cui mi è capitato d’avere una buona intesa, come Buñuel, Resnais, Sautet, Ferreri, mi è stato facile diventare, quando necessario, il loro ‘doppio’. Lo si avverte, credo, nel Disprezzo, mio film ‘italiano’ di regista non italiano: il mio personaggio è Godard al 99 per cento, ne sono divenuto un alter ego. Fenomeno che s’è ripetuto con Manoel de Oliveira o, sei anni fa, con Nanni in Habemus Papam, dove filtro di più la personalità del regista che del personaggio.

Per questo, con Ferreri, è diventato subito uno delle famiglia?

Eravamo amicissimi senza parlarci. Formavamo una vera banda: lui, Philippe Noiret, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni… Era un gigante timido, un mostro di seduzione. Un uomo di tenerezza infinita. Il nostro primo incontro fu, nel ’68, in un caffè a Parigi. Mi diede dieci pagine da leggere. Non una sceneggiatura, ma un racconto senza dialoghi. Splendido. Era Dillinger è morto, mio primo grosso ruolo in Italia. Ma l’esperienza più esaltante è stata La grande abbuffata, che Marco ha potuto realizzare grazie a un produttore francese genialoide e pazzo. Mentre giravamo, eravamo convinti di interpretare una commedia brillante e ci siamo anche divertiti molto. Ma dopo averlo visto, ci siamo spaventati. Era un film drammatico, il più riuscito di Ferreri.

Ha qualche rimpianto d’“acteur italien”?

La mia ‘italianità’, l’ho soddisfatta a Milano, a Roma, a Torino, dove sono stato ospite del Festival quand’era diretto da Moretti. Ma sì, ho un rimpianto, grande: l’incontro mancato con Antonioni, con cui avrei voluto girare La notte nella Milano all’alba dei ‘60, a fianco di Jeanne Moreau, sull’onda jazz di Giorgio Gaslini, tra ‘comparse’ eccellenti come Umberto Eco, Salvatore Quasimodo, Valentino Bompiani… Michelangelo mi ha preferito Mastroianni, un amico, un grande. Il mio più bel bacio sulla bocca al cinema l’ho dato a Marcello nella Grande abbuffata. Pur nella diversità, ci accomunava il distacco, l’ironia. Ma lui, con la sua leggerezza, le sue magie di seduttore, era una vera star. E tuttavia, non facevo che ripetere a Fellini: perché usi sempre quel vecchio trombone? Prendi me!

Tra i suoi trionfi, Locarno dieci anni fa, dove è stato premiato per la superba interpretazione in Les toits de Paris.

L’ha diretto un giovane curdo-iracheno, Hiner Saleem, io sono un ottantenne un po’ ammaccato. Il successo mi ha rallegrato, perché avevo rivissuto in quel film Dillinger è morto. Anche lì, poco dialogo: trovo che oggi si parli troppo, nel cinema come nella vita quotidiana. E m’era toccato uno di quei personaggi-limite che da attore prediligo. Nella vita sono discreto, ma in scena e sul set mi piacciono gli estremi, la follia, il delirio. Detesto le commedie ritrosette, perbene. Certo, i gigioni non sono l’ingrediente migliore dello spettacolo, a meno che non si tratti di geni come Totò: il quale, comunque, nella vita quotidiana era uomo di grande pudore.

Dall’alto dei suoi oltre 150 film, ha un rimprovero da muovere all’Italia cinematografica d’oggi ?

Sì, avete rimosso Ferreri, uno dei pochi registi che han fatto da bandiera ai film italiani nel mondo. Un artista d’immensa intelligenza, con un amore sconfinato per il mare, la donna, i bambini. Un uomo dai grandi silenzi, tanto feroce quanto tenero: era il suo modo di proteggere sé stesso e gli altri. Le sue risate sembravano pianti. Era l’inquietudine per non sapere come vivere e come morire. I suoi film stupivano, come i suoi occhi blu, che chiudeva per ascoltare meglio, per imprigionare tutto, con o senza macchina da presa.

Ne è stato l’attore-feticcio.

Non solo di Ferreri. Anche di Claude Sautet, con Les choses de la vie, Max et les Ferrailleurs, Mado e Vincent, François, Paul… et les autres, e di Luis Buñuel, altro complice di lungo corso: sei film con lui, tra i maggiori, Le journal d’une femme de chambre, Belle de jour, Le charme discret de la bourgeoisie… Con Ferreri, facevo parte della ‘banda’, insieme a Noiret, Ugo, Marcello, Gérard Depardieu. Ma è vero, son quello che ha girato più film – 8 – con lui : oltre ai più noti, Come sono buoni i bianchi, L’ultima donna, Racconti di ordinaria follia, Non toccare la donna bianca, dove mi son divertito a ‘rispolverare’ Buffalo Bill nelle Halles sventrate di Parigi. Mi emoziono ogni volta che ricordo Ferreri : è il regista che più ho amato, insieme a Buñuel, Godard e Sautet. Tra tutti, è Marco l’amico che mi manca di più. Senza questi affetti profondi non vale la pena di lavorare né di vivere.

  1. continua. Puntate precedenti : Jacques Perrin (21/VII)- Jean-LouisTrintignant (28/VII)- Alain Delon (5/VIII)- Gérard Depardieu (19/VIII)