Vi è sempre stato un rapporto privilegiato tra la disciplina antropologica e il romanzo, soprattutto quando queste due differenti forme di scrittura hanno per oggetto il viaggio verso un territorio «lontano». Se prendiamo le numerose ed eterogenee scritture di viaggio a partire dal secondo Ottocento la maggior parte di queste rimandano tanto alle teorie che segnano la nascita accademica delle discipline etno-antropologiche nel nostro Paese, quanto ai margini stilistici di un genere letterario antico.

LA COLLANA «FIELDWORK» della casa editrice Milieu si inserisce dentro questa storia poco raccontata (quando non accettata) dall’accademia. Diretta da Franco La Cecla e Andrea Staid, la collana vuole arricchire l’editoria italiana di narrazioni di viaggio di antropologi, artisti, scrittori, botanici, fotografi, registi. La convinzione di chi ha dato vita a questa realtà è che nei diari di campo e di viaggio si interroghi il mondo molto di più che in un arido saggio: «Fieldwork avvicina il pubblico a una letteratura coinvolgente come un romanzo e qualificata come un lavoro di ricerca», scrivono La Cecla e Staid lanciando il loro progetto editoriale.
La traduzione di My cocaine museum (2004), dal titolo Il mio museo della cocaina. Antropologia della polvere bianca (p. 335, euro 20), nella traduzione di Francesco Francis, è l’ultimo frutto di questo pensiero. Si tratta di un lavoro di ricerca di Michael Taussig, frutto dell’esperienza di una vita in un mondo complesso: la Colombia delle comunità nere, le atrocità commesse in nome dell’oro, della cocaina, dello zucchero di canna e del tabacco, un «cuore di tenebra» attualissimo. Dopo le «note dell’autore: istruzioni per l’uso», il volume si compone di oltre trenta capitoli caratterizzati da titoli poco accademici e molto letterari: «Un cane ringhia», «Il diritto di essere pigri», e via proseguendo. «Un tempo era l’oro a determinare la politica economica della colonia, quello che oggi modella il paese è la cocaina. Non parlare della cocaina, non mostrarla, significa insistere con lo stesso rifiuto della realtà che il museo dell’oro pratica in relazione alla schiavitù», scrive Taussig. Diversamente dal Museo dell’Oro, però, situato nel bel centro della capitale, quello dell’antropologo, il museo della polvere bianca, si trova all’estremità più remota del Paese, «dove l’Oceano Pacifico penetra in un’area di seicentocinquanta chilometri di paludi di mangrovie e di foreste non battute, dove l’aria si muove appena e la pioggia non cessa mai». In questi territori Taussig è tornato estate dopo estate, per poche settimane, per tutti gli anni Novanta fino al 2002, e prima ancora nel 1971 e nel 1976, con l’intenzione di scrivere un libro sul villaggio di cercatori d’oro di Santa Maria, situato sulle sponde del Rìo Timbiquì: «In quegli anni, quando già l’abbondanza di oro era poco più di un ricordo, apparve all’orizzonte la cocaina». Il lavoro di Taussig è un lunghissimo viaggio etnografico che parte dal villaggio fluviale di Santa Marìa, nel folto della foresta, oltrepassa la capitale provinciale Santa Barbara fino a raggiungere le acque stagnanti della foce del fiume per poi dissolversi su un ex isola-prigione a dieci miglia della costa, Gorgona.

OGNI CAPITOLO è introdotto da un’immagine: una fotografia, un disegno dell’antropologo, una mappa. La scrittura «ibrida» di Taussig si spiega anche con la ricchezza delle pagine bibliografiche in cui emergono i nomi di filosofi contemporanei quali svettano Adorno, Arendt, Bataille, Benjamin, Canetti, Heidegger, Niezsche, Wittgenstein; la letteratura, scientifica e non, latino-americana, a cominciare da Arboleda; le opere di scrittori per lo più europei come Artaud, Genet, Goethe, Baudelaire, Breton, Borroughs, Céline, Conrad, Dickens; oltre ai classici quali Evans-Pritchard, Lévi-Strauss, Malinowski, Mauss.
Il posizionamento dell’autore è chiaro, e la politica, come oggetto di analisi, percorre tutte le pagine del volume. «Un cane ringhia sulla soglia della casa dove alloggio a Guapì. Non l’avevo mai udito ringhiare prima. Guardo fuori in strada. Ci sono due soldati di pattuglia, armati, con le tute mimetiche d’ordinanza. Mi colpisce il pensiero che quel cane dà voce a qualcosa che molti di noi sentono ma non manifestano. Che succederebbe se tutti ringhiassimo quando i passano i soldati? Un’intera città che ringhia! Quanto sarebbe appropriato rispondere a tono al ringhio dello Stato, ripetendolo, ringhio per ringhio».
Tutta la sua scrittura, come affermerebbe Geertz, è funzionale a dimostrare ai lettori che l’antropologo è stato là: «Nell’entroterra di fronte a Gorgona, sul Rìo Timbiquì, il giorno di Pasqua del 1976, mi alzo nel pieno della notte. Alberi del pane e palme chontaduro con le foglie lanceolate si stagliano contro il cielo nero dietro la casa di Daniela, dove alloggiamo al secondo piano, che ha grossi buchi sul pavimento, proprio sulla testa di Omar addormentato. Sempre che dorma. Qualcuno, probabilmente Juan Pablo, suona la marimba, uno xilofono fatto di bambù e di asticelle di legno duro di chonta».
Scrive Taussig che «lo Stato colombiano era una buffonata, uno spettacolo di marionette e di trucchi illusionistici, una casa degli specchi fatta in modo che scaltri imbroglioni potessero aggirarvisi e strappare profitti da quel sanguinoso conflitto servendosi di un’instancabile esibizione di apparenze riflesse». Da questo punto di vista, il lavoro di ricerca ha avuto come obiettivo generale quello di far capire ai lettori quale sia il vero campo di potere decostruendo tali apparenze e di conseguenza facili interpretazioni.

ECCO ALLORA che quella relazione così forte tra romanzo e antropologia, ritorna in campo: «Che cos’è l’antropologia se non una specie di traduzione che è tanto più onesta, veritiera e interessante quanto più mostra l’atto del mostrare, cioè come viene prodotta? Ha raccontato le storie della gente, generalmente rovinandole nel farlo per mancanza di sensibilità verso il compito del narratore. Non abbiamo “informatori”. Viviamo con narratori, che fin troppo spesso abbiamo tradito per amore di una scienza illusoria. Il nostro compito, spaventoso, è quindi attraversare lo spartiacque e diventare noi stessi narratori. Ci è voluto molto tempo. Virtualmente l’intero ventesimo secolo, che sta liberandosi del realismo travestito da scienza del diciannovesimo».
La Cecla ricorda, nella sua postfazione, come Taussig sia arrivato in Colombia nel ’68. «Si è subito posto a lato del mondo delle comunità nere della fascia rurale del Paese, e poi accanto alle lotte per le terre di indios e campesinos. Era medico, si è reso utile, fin quando qualcuno lo ha avvertito che la polizia lo stava cercando e solo allora è venuto a Bogotà a cercare negli intellettuali e nella fascia alta della società qualcuno che potesse un minimo proteggere il suo lavoro, lui e la sua compagna . Si è fatto chiamare Mateo Mina per scrivere sullo stato dei neri della costa e per potere continuare a lavorare senza dare troppo nell’occhio».

LA CECLA, il quale ha ripercorso tutte le tappe del viaggio di Taussig, chiudendo così l’opera dell’antropologo ceco-australiano, si domanda: «Cosa ho veramente capito fino ad ora della Colombia? Perché è sicuro che mi ci ha trascinato Taussig, tutto è molto più complicato. Otto milioni e mezzo di morti ammazzati in settant’anni, un paese sull’orlo della follia, dove sopravvivere alla violenza è stata la fortuna di pochi, il primo paese al mondo per numero di gente “sfollata” dai propri luoghi di vita, le atroci immense favelas. Si può essere rapinati, ma anche sequestrati. Ci sono intere zone in Colombia dove migliaia di bambini non vanno a scuola perché è troppo pericoloso». Eppure, conclude La Cecla, «la lezione di Michael è che anche qui, o forse soprattutto qui c’è una maniera di stare con le persone che vi prende alle viscere e vi segue poi dappertutto».