È il settembre del 2014 quando sul fondale della baia di Wilmot e Crampton, nel Nunavut, l’estrema regione settentrionale del Canada protesa verso la Groenlandia, viene individuato uno scafo di legno rivestito da uno strato lanoso di vegetazione acquatica. Si tratta di «una nave scomparsa dalla faccia della terra, insieme al suo equipaggio, centosessantotto anni prima. Una nave che ha avuto una delle più straordinarie vite e morti dell’intera storia navale britannica – e, da quel giorno, una delle più eccezionali resurrezioni».

Michael Palin

Si tratta dell’Erebus, nata all’inizio dell’800 come nave da guerra, una «bombarda» che poteva trasportare mortai in grado di sparare oltre le alti fortificazioni della costa e che dalla metà del secolo è adibita alle missioni di esplorazione. Dapprima verso l’Antartide, agli ordini del capitano James Clark Ross e quindi, sotto il comando di Sir John Franklin, nell’Artico, con l’obiettivo di individuare, e attraversare il Passaggio a Nord-ovest. Salpate dall’Inghilterra nel maggio 1845 – insieme all’Erebus c’era la Terror, un’imbarcazione della stessa classe -, le due navi furono avvistate l’ultima volta ad agosto nella Baia di Baffin, nel nord del Canada. Bloccate nel ghiaccio, saranno abbandonate dall’equipaggio, ma né delle navi né dei 134 uomini che erano a bordo, si ebbe più alcuna notizia, tranne le scarse tracce di oggetti e corpi rinvenute in seguito dalle spedizioni inviate alla loro ricerca.

È questa la vicenda a un tempo affascinante e spaventosa che Michael Palin, tra i fondatori dei Monty Python e appassionato studioso della storia della navigazione e delle esplorazioni polari – già negli anni 90 è stato protagonista della serie di documentari della Bbc Pole to Pole – ha ricostruito nel suo Il mistero dell’Erebus (Neri Pozza, pp. 416, euro 19, traduzione di Ada Arduini). Un libro dal timbro narrativo che riporta il lettore, anche sulla scorta di un vasto lavoro di ricerca d’archivio e di frequentazione dei mari solcati dalla nave, sul ponte dell’Erebus, in attesa che il destino si compia.

Conclusa l’esperienza con i Monty Python si è dedicato a documentari e opere divulgative sulla navigazione e le esplorazioni polari. Da cosa nasce questo interesse?
Sono sempre stato affascinato dalla forza del mare, dall’immensità dell’oceano e nutro una profonda ammirazione per le persone che sfidano questi elementi, spesso con grande rischio. Sono nato e cresciuto a Sheffield, vale a dire il più lontano possibile dal mare e forse per questo ero attratto da ciò che non potevo avere: da ragazzo al massimo tenevo il conto dei treni che passavano vicino a casa. C’è da dire che da buon cittadino di una nazione insulare mi hanno insegnato che il mare era la nostra sicurezza e che alcune delle tappe più importanti della storia del Paese si sono scritte difendendo la costa. Le sconfitte inferte all’Armada spagnola e a Napoleone si devono entrambe alla Marina, anche se non abbiamo avuto la stessa fortuna con i Normanni. Dominavamo i mari, il che ci ha incoraggiato a diventare avventurieri e esploratori. E purtroppo anche commercianti di schiavi.

L’Erebus fu realizzata quasi interamente a mano. Lei racconta come la nave uscì dal cantiere navale di Pembroke, nel Galles, dopo 20 mesi di lavoro e dopo che le travi del suo scafo erano state scelte una ad una immaginando dove quel legno avrebbe potuto modificarsi in reazione agli agenti atmosferici. Il lavoro di centinaia di artigiani forgiava il destino di quei velieri?
Il titolo originale del mio libro (in inglese, nda) è Erebus, storia di una nave proprio perché la sua creazione aveva un significato particolare ai miei occhi. Volevo rendere omaggio agli uomini che l’hanno costruita talmente bene che giace ancora oggi quasi del tutto intatta sotto le acque dell’Artico a poco meno di 200 anni da suo varo. L’abilità, la perseveranza e il coraggio di quegli artigiani, come degli equipaggi che l’hanno condotta in pochi decenni dall’Antartide al Passaggio a Nord-ovest è il vero cuore della straordinaria vita dell’Erebus.

Immagini degli ufficiali dell’Erebus

A quell’epoca le informazioni sui viaggi provenivano solo dal diario di bordo del capitano. Nel libro raccoglie però anche altri documenti, lettere e diari scritti dai membri dell’equipaggio. Cosa emerge da quelle pagine?
Alla fine della missione i diari del comandante e dei suoi assistenti dovevano essere passati all’Ammiragliato che operava ogni sorta di censura. Le lettere e i diari dell’equipaggio, invece, non subivano la stessa sorte. Perciò, avere accesso a quanto scrivevano marinai e soldati impiegati sulle navi ci consente di capire cosa pensassero davvero quegli uomini. Così, ad esempio, ho scoperto che quando ancora la nave si trovava al largo del porto scozzese di Stromness, nelle isole Orcadi, all’inizio del viaggio, mentre gli ufficiali erano entusiasti e pieni di fiducia, un carpentiere scriveva a sua moglie ammettendo che lui e i suoi compagni erano molto preoccupati su come le cose potessero andare a finire. Gli ufficiali non potevano ammettere pubblicamente le loro paure, ma per gli altri era diverso.

[do action=”citazione”]All’inizio del viaggio, mentre gli ufficiali erano entusiasti e pieni di fiducia, un carpentiere scriveva a sua moglie ammettendo che lui e i suoi compagni erano molto preoccupati su come le cose potessero andare a finire[/do]

Nell’epoca della globalizzazione è difficile comprenderlo, ma fino ai primi del Novecento – con le imprese di Amundsen – il Passaggio a Nord-ovest incarnò uno spazio fisico ma anche una sorta di mito. Cosa rappresentava?
Il Passaggio costituiva una sfida sia geografica che commerciale. Si trattava di superare il clima e le difficoltà dell’Artico ottenendo come ricompensa l’apertura di una nuova rotta tra l’Atlantico e il Pacifico: un tragitto molto più breve di quello che passava per Cape Horn o il Capo di Buona Speranza. Era il Santo Graal del commercio marittimo e un elemento per la cui conquista competevano tutte le grandi potenze dell’epoca, a cominciare da Russia e America.

La stagione dell’esplorazione dei Poli, cui partecipò anche l’Erebus, fece seguito alle guerre napoleoniche che avevano visto impegnata la Royal Navy. Nell’età vittoriana questi viaggi presero il posto delle vittorie militari e delle conquiste di un tempo?
Per un breve periodo, tra la sconfitta di Napoleone e lo scoppio della guerra di Crimea, ci fu una stagione di pace e prosperità durante la quale la marina britannica fu in grado di usare le abilità apprese in guerra per sostenere le indagini scientifiche di cui queste spedizioni erano parte. Inoltre, all’epoca, almeno su questo le grandi nazioni europee e gli Stati Uniti collaboravano per esplorare e ampliare la loro conoscenza del mondo.

[do action=”citazione”]La natura ha intrappolato nel ghiaccio quegli uomini per oltre due anni. E, forse, temendo di subire la stessa sorte per un terzo anno hanno deciso di abbandonare le navi in cerca di aiuto. Ma era ormai troppo tardi per salvarsi[/do]

Intorno alla tragica fine dell’Erebus si accese fin dall’inizio una curiosità morbosa, si parlò di casi di cannibalismo a bordo e di una strage compiuta dagli Inuit. Aspetti ripresi di recente da alcuni autori di science fiction e in una serie tv. Lei che idea si è fatto di ciò che accadde?
Il destino dell’Erebus e della Terror rimane ancora un mistero. Un vuoto da riempire dagli scrittori dotati di fantasia. Il fatto che si siano potuti verificare dei casi di cannibalismo tra gli equipaggi ridotti allo stremo ha aperto la strada ad uno scenario macabro. La serie The Terror (prodotta da Ridley Scott, nda), e il romanzo da cui è tratta (scritto da Dan Simmons, nda) immaginano che un enorme orso polare abbia attaccato le navi rimaste bloccate nel ghiaccio e i loro equipaggi. Ma si tratta di pura fantasia, perché nessuno sa cosa sia realmente successo. A mio avviso, il vero «mostro» che ha divorato tutti è frutto della straordinaria combinazione di due degli inverni più intensi del XIX secolo, uno dopo l’altro. La natura ha intrappolati nel ghiaccio quegli uomini per oltre due anni. E, forse, temendo di subire la stessa sorte per un terzo anno hanno deciso di abbandonare le navi in cerca di aiuto. Ma era ormai tardi, erano troppo malati e indeboliti dalla fame per andare in qualunque luogo. Cadevano sul ghiaccio e restavano lì a morire senza più forze.

L’equipaggio dell’Erebus cerca una via di fuga

Il suo libro esce nel pieno della pandemia: il viaggio dell’Erebus ci dice qualcosa dei rischi insiti nella sfida dell’uomo alla natura?
Penso che la spedizione di Franklin fu concepita con una certa dose di arroganza. Con la convinzione – che torna spesso nell’uomo – di poter domare la natura e diventare la forza dominante nel mondo. Ma alla fine la natura si dimostra sempre più forte e potente. Perciò, è piuttosto a un equilibrio tra l’uomo e il mondo naturale che dobbiamo ambire.