Non ci sarà alcuna Parolimpiade per i mutilati sopravvissuti alla Grande Guerra. Una inesauribile riserva di cavie si spalanca sul progresso dell’anatomia. Che infatti si mette al lavoro, fra sensi di colpa e entusiasmo industriale. Protesi d’ogni tipo, mani e braccia meccaniche, arti semoventi in legno e metallo da applicare dove l’originale manca, in un macabro carosello di posture, prove di rieducazione, esercizi ginnici e audacia sportiva (corsa, lancio del. Per tacere di quelle maschere plastiche, calchi facciali da applicare sui volti deturpati, nasi, bocche, orecchie, guance, labbra cancellate da una granata o dal gas. Dalle trincee del 15/18 molto è emerso in questi anni di centenario. Mostre, libri, film, documenti, testimonianze, immagini. Soprattutto immagini.

Un collage di «frame» accesi sui fronti e fra le retrovie, raccordati con foto, dipinti, materiali letterari e poetici coevi, dada espressionisti, compongono War Work: 8 Songs with Film, il lavoro di Michael Nyman spalancato sulla mattanza della Prima guerra mondiale, che ora, amplificato in una versione a sette schermi (dopo l’iniziale visione frontale), ha debuttato nella sala d’Arme di Palazzo Vecchio, su invito di Firenze Suona Contemporanea numero 9, rassegna dialogo fra musica e arte, impaginata e diretta da Andrea Cavallari. Nyman, i classici grandi occhiali di tartaruga, l’abito fumo di Londra, seduto alla consolle, dipana, allerta, sfuma, dilata, infiamma, mixa, ascetico dj, il materiale dei suoi Song, registrati su 7 diverse tracce, che fanno da colonna e trauma sonoro al tripudio di immagini che colpiscono gli schermi.

In una progettualità che si allontana dalla sintassi minimalista che l’ha reso popolarmente famoso, anche attraverso il cinema (la collaborazione con Peter Greenaway e Jane Campion), Nyman rilegge la forza trainante del medium musicale come intervallo dialettico di un discorso artistico più ampio e frastagliato, un medium cui spetta la fascinazione primaria dell’emozione, insieme semplice e sperimentale.

Si colgono così nel flusso interrotto della musica, melodie vivaldiane, intelaiature etno, jazz, rock e ripetizioni programmate, mentre il montaggio delle immagini, caotico e matematico, rinvia inesorabilmente al «sistema alternato» di Ejzenstejn come alle virtuosistiche, caleidoscopiche, in una sorta di illusionismo prospettico, elaborate da Dziga Vertov o da Walter Ruttmann. Solo che qui, al posto di Mosca e di Berlino, c’è la fine di un’epoca. E dei suoi ignari protagonisti. Dilapidati in questo modo del loro unico bene: il corpo.