È un apocalypse now quella di Michael Moore, che inizia la notte delle elezioni (l’undici novembre – «11/9») che hanno dirottato il Paese su binari nazional populisti rischiando di far deragliare definitivamente l’esperimento americano. Fahrenheit 11/9 non è solo un attacco a Trump ma fotografa una democrazia già in stato di decomposizione avanzata al momento del suo avvento. Certo, Moore inizia la sua geremiade con una carrellata sulle psicopatologie del narciso che contro ogni previsione, due anni fa, ha prima eviscerato il partito repubblicano, poi vinto le elezioni presidenziali dell’«ultima superpotenza». Un tragitto che il regista considera all’inizio quasi come un gioco perverso, e un atto dimostrativo dello stesso Trump per convincere la Nbc ad aumentare il suo gettone come titolare del reality The Apprentice. Il magnate immobiliare avrebbe deciso di candidarsi solo dopo l’inatteso successo dei primi comizi.

Il prologo sulla sua resistibile ascesa dipinge un Trump da un lato Presidente per caso, e dall’altro terminale inevitabile di un annoso degrado democratico in regime di tardo liberismo finanziario. È questo lo spunto per uno dei temi principali che attraversa Fahrenheit 11/9: l’invettiva contro il partito democratico imputato più dei conservatori per avere abdicato ogni vera opposizione. Complice e collusa, asservita agli stessi padroni finanziari, l’opposizione «moderata» dei dem non ha trovato di meglio che sabotare la campagna di Bernie Sanders e snobbare l’elettorato working class degli stati de-industrializzati (Wisconsin, Pennsylvania, Michigan) che gli sarebbero costati la sconfitta.

E al suo Michigan conduce la denuncia dello sporco affare delle acque avvelenate di Flint. Moore torna nella sua città – quella di Roger and Me – in un segmento che rievoca la forza graffiante del suo primo film. La storia della privatizzazione delle acque cittadine (opera del governatore proto trumpista Rick Snyder) ed il conseguente avvelenamento di massa dei bambini della popolazione a maggioranza afro americana, è il paradigma della guerra ai poveri nell’era della diseguaglianza abissale – e la parte più efficace di una critica che non risparmia neppure l’ignavia di Barack Obama.
Gran parte del film, progettato come una carica in vista delle elezioni di midterm in novembre, è poi dedicata ai segni di vita a sinistra. Appaiono Alexandria Ocasio Cortez, candidata socialista del Bronx, Rahsida Tlaib, musulmana, favorita per un seggio al Congresso dal Michigan, Richard Ojeda, reduce e sindacalista del West Virginia dei minatori e degli insegnanti in sciopero, David Hogg, Emma Gonzalez e gli altri ragazzi sopravvissuti alla strage del liceo Stoneman Douglas in Florida che hanno organizzato la campagna anti- NRA (la National Rifle Association, che sostiene la lobby delle armi) portando in piazza milioni di persone.
Giovani, donne, minoranze, working class – prove per una possibile coalizione neo rooseveltiana che Moore sostiene è l’unica possibile salvezza in vista dell’appuntamento di novembre, cruciale per l’America e per il pianeta. L’alternativa, a cui dedica il finale, è la definitiva normalizzazione di un fascismo del terzo millennio di cui fanno parte Trump, Brexit e la recrudescenza sovranista europea.

Da cosa nasce «Fahrenheit 11/9»?

Sin dall’inizio mi è sembrato evidente che Trump fosse il risultato logico di cinque decenni di lento degrado della democrazia e del «sogno americano». Il definitivo sopravvento degli interessi finanziari e di Wall Street sui diritti dei cittadini e sull’idea che tutti abbiamo un posto a tavola e una fetta di torta. Forse in realtà non c’è mai stata ma Trump è davvero l’ultimo chiodo nella bara. Io lo chiamo l’ultimo presidente degli Stati uniti perché potrebbe davvero esserlo. Né esiste ormai un meccanismo chiaro per rimuoverlo: siamo davanti all’avversario più pericoloso di sempre.

Come spiega il dilagare di fenomeni simili nel mondo?

Mi sembra che in molti paesi la gente sia stufa di come vanno le cose nelle loro vite quotidiane e che vedano Trump, la Brexit o altri fenomeni analoghi come Molotov da lanciare contro il sistema per vendicarsi. Dopo Brexit ho partecipato al programma di Bill Mahre dicendo che Trump avrebbe vinto e che lo avrebbe fatto vincendo in Michigan e in Pennsylvania e in Wisconsin. E il pubblico di quel programma, che è principalmente liberal, mi ha fischiato: nessuno ci credeva. Beh, mi spiace dovervi dare cattive notizie ma fareste bene ad ascoltarmi. Dopotutto sono io, quello che all’Oscar aveva avvertito che non si sarebbero trovate arme di distruzione di massa in Iraq, quello che ha fatto un documentario su Columbine dicendo che le sparatorie sarebbero state sempre di più, e guardate dove siamo oggi. A volte mi chiedo quanto altri film devo fare, quanto devo sbattere la testa al muro per spiegare cosa sta accadendo a questo Paese? Perché ora siamo giunti a questo punto, abbiamo dato la Casa Bianca a qualcuno che non ha alcun rispetto per la legge e per la decenza umana.

C’è di che sconfortarsi…  

Anch’io, come tutti, mi sono quasi arreso. La gente è disperata, siamo una nazione demoralizzata. Dovremo reagire tutti assieme, nelle strade, nei seggi, siamo più numerosi noi di loro. Sappiamo che Hillary ha vinto, che ci sono almeno tre milioni in più di noi, quindi potremmo riuscirci.

L’America riuscirà mai a lavare l’onta del trumpismo? 

È importante che la gente in altri paesi si ricordi che la maggioranza degli americani non ha voluto Trump, che è riuscito a prendere il potere solo grazie a un’oscura clausola costituzionale inserita 200 anni fa per tutelare gli stati schiavisti (il collegio elettorale, ndr). E ora tutti ne stiamo pagando il prezzo: dobbiamo liberarcene al più presto. Non c’è molto spazio per l’ottimismo ma come mostro anche nel film qualcosa si muove, ci accingiamo a mandare al Congresso la prima donna musulmana, una madre single, la gente comincia a dire: «Così ci sbarazzeremo di Trump, così resisteremo» e forse – forse dico – ci riusciremo.

Il suo messaggio ai suoi concittadini?

Non arrendetevi ma smettiamo di «sperare», la speranza non aggiusta nulla, non si può fondare una rivoluzione sulla speranza. La speranza non ha mai sconfitto un presidente in carica, la speranza, ora, ci è solo nemica. È quello che continuano a ripeterci i democratici: «C’è speranza per il 2020…» – ma di questo passo al 2020 non ci arriviamo nemmeno. Dobbiamo insorgere ora, ci dobbiamo riversare nei seggi a novembre, fare tutto il necessario per porre fine a questa follia. Se però stiamo a casa a sperare allora sì che non ce ne sarà davvero più di speranza. La nuova generazione, come i ragazzi sopravvissuti alla sparatoria di Parkland (liceo in Florida, ndr) non sperano, si danno da fare ed è solo così che potremo vincere. Forse sperare ti fa sentire meglio ma io sono contrario ad anestetizzarmi con la speranza. L’unico rimedio è l’azione e il nemico è più grande di Donald J. Trump. L’avversario è il capitalismo americano. Per riprenderci il Paese dovremo andare contro Wall Street, contro la misoginia. Bisognerà tenere i razzisti al loro posto per impedire che abbiano voce in capitolo.

Il sogno americano è davvero in pericolo di vita?

Ci troviamo in una sorta di incubo al rallentatore che a me sembra iniziato da tempo, ben prima di Trump il «sogno» americano per molti era un incubo. Abbiamo 40-50 milioni di persone che vivono sotto la soglia della povertà, che non sanno leggere oltre il livello di un bambino di 10 anni. E più mantieni la popolazione ignorante e fomenti la paura, più stretta è la morsa. In questo quadro il partito democratico gioca il ruolo di Vichy, sono collaborazionisti. Se saremo moderati come ci consigliano, sarà la nostra fine. Dobbiamo invece agire come se fossimo la resistenza francese e i carri armati tedeschi si trovano a 30 km da Parigi….Negli anni 80 ho letto un libro intitolato Friendly Fascism di Bertrand Gross in cui scriveva profeticamente che il fascismo del ventunesimo secolo non avrebbe avuto il volto di quello del ventesimo. Che non si sarebbe presentato con campi di concentramento e le svastiche ma semmai con un sorriso e un programma in tv, così la gente sarebbe stata convinta a seguirlo. Il fascismo in corso ora non ha carri armati ma le aziende di Wall Street.

Esistono paralleli storici fin troppo lampanti.

Nel film ho volute mettere la prima pagina di un giornale ebreo di Francoforte all’indomani della presa di potere di Hitler. Invitavano alla calma, spiegavano che i nazisti non avrebbero potuto realizzare i loro programmi, che la costituzione glielo avrebbe impedito. Un ottimismo che mi ricorda molto quello di chi rassicura sul futuro o invoca l’impeachment e l’indagine dell’ Fbi come soluzione.

Lo avranno capito gli americani?

Sa chi lo capisce? Le donne, i giovani, le minoranze etniche. Credo che ci sarà uno tsunami di elettori a novembre, neri, ispanici, che affluiranno a livelli record. Se lo faranno i repubblicani verranno sconfitti. Se non lo faranno questo non accadrà e Trump verrà rieletto anche nel 2020.