Dei disagi esistenziali, le bizzarrie, gli interventi estetici e gli scandali di un bimbo mai cresciuto che di lì a pochi anni lo travolgeranno, nel documentario di Spike Lee che accompagna la nuova edizione di Off the Wall, il primo passo nel mondo della discografia adulta di Jacko, non c’è traccia. E non sorprende, perché la supervisione della famiglia dietro ogni pubblicazione del catalogo milionario della pop star morta nel 2009, edulcora ogni minimo tentativo di andare oltre una mera agiografia.

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Ma se si guardano sotto un aspetto strettamente storico e musicale, i novanta minuti del filmato realizzato dal regista di Jungle fever sono una miniera di informazioni infinite intorno alla realizzazione di un disco che, sotto molti punti di vista è un album innovatore del mondo r’n’b più di quanto abbia fatto il successore, Thriller, con i suoi folli record di vendita su scala mondiale.

Perché se Thriller (1982) e poi Bad (1987) sono pensati per conquistare una platea globale, riuscendo mirabilmente a tenere in equilibrio sofisticate aperture stilistiche e inevitabili concessioni commerciali, il primo vero progetto di Michael Jackson dopo gli anni insieme ai fratelli e a vacui dischetti incisi nel periodo dell’adolescenza con la Motown, appare quello dell’affrancamento definitivo dalla family e la dimostrazione tangibile del talento di un genio, disposto a rischiare. I dieci pezzi che compongono l’album – prodotto come i due successivi da Quincy Jone che Michael aveva conosciuto sul set di The wiz, il rifacimento «black» del Mago di Oz – contengono infatti una quantità di spunti, idee e arrangiamenti lussureggianti, da renderlo a trentasette anni di distanza ancora un banco di prova fondamentale per generazioni di artisti come Pharrell Williams, The Weekend, Bruno Mars o Mark Ronson che a quei suoni e quelle ritmiche si sono pesantemente ispirati.

Off the wall esce nell’anno che segna l’apice e la repentina caduta della disco music, ponendosi come obiettivo una sorta di rifondazione del genere su basi r’n’b. E basta l’intro pulsante di basso e batteria di Don’t Stop Till You Get Enough, il singhiozzo liberatorio di Michael a far capire che l’obiettivo è raggiunto. Dieci canzoni suonate dai migliori musicisti sulla piazza (Steve Porcaro, Greg Phillinganes, George Duke), firmate oltre che dallo stesso Jackson da Stevie Wonder, Paul Mc Cartney, Rod Temperton, dove r’n’b, funk e pop si fondono alla perfezione insieme a strati di archi e fiati che non appesantiscono mai l’ascolto e risultano – trentasette anni e 18 milioni di copie vendute dopo – incredibilmente freschi. Come se la magia dello Studio 54 si fondesse con Mamma Africa.