«Lavoro sempre. Se non puoi scrivere un libro scrivi una sceneggiatura. Se non ce la fai, scrivi una canzone. E se non ci riesci ti metti a ballare. Ma fai qualcosa. Non ti devi fermare mai!». L’uragano Michal Cimino travolge il festival di Locarno. Pardo d’onore Swisscom, l’autore de I cancelli del cielo è un fiume in piena di generosità. Da consumato stand up comedian interagisce con il pubblico. Non osserva il rito protocollare. Battute a raffica e riflessioni fulminanti sul cinema e il lavoro del cinema. Avvolto da un alone Sense8, Cimino è irrefrenabile. Risponde a tutto e a tutti. Anche con una punta di crudeltà subito dalla cineasta belga Chantal Akerman che mi sussurra all’orecchio: «Mi sembra di rivedere gli ultimi giorni di Orson Welles. Quando non faceva altro che parlare dei film che avrebbe voluto fare e che nessuno gli produceva pur promettendogli sempre che era la volta buona».

La Monument Valley, spiega Cimino, è un luogo molto piccolo. Era Ford che lo faceva sembrare un posto immenso. Quando ho girato Verso il sole sono andato a visitarlo e prima di partire ho scritto sul libro degli ospiti: Dio benedica John Ford. Non ho mai filmato nella Valley e non lo farò mai. È suolo sacro. È la terra di John Ford».

E mentre così dice, la voce sembra che gli si spezzi in gola. È un momento. Chi ama Cimino però sa che dietro la facciata dell’uomo che ha affrontato le peggiori fatwa del sistema hollywoodiano si cela l’ultimo, immenso, discepolo fordiano. E spiega: «Bisogna avere coraggio per girare nelle montagne. La montagna non ti permette di prendere quello che vuoi e scappare. Da regista non fai altro che controllare il tempo. E la montagna ti sfida. Vuole sapere se sei degno di filmarla. Ti mette alla prova.. E poi c’è Cimino che carica a testa bassa: «Sono stufo dei vecchi coi capelli bianchi che mandano a morire in guerre che hanno dichiarato loro! Questa follia deve finire!» E c’è anche un fuori programma. Ulrike Koch, regista del film Die Salzmänner von Tibet, premiato a Taormina nel 1997 si alza e commossa prende la parola: «Voglio ringraziarla per avere premiato il mio film». Cimino scatta in avanti e abbraccia la regista. «Mi ricordo di Taormina. Un festival bellissimo. Diretto da un pazzo…».

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E mentre così dice si materializza Ghezzi e Cimino sgranando gli occhi, e riconoscendo la persona che gli aveva posto una domanda su Sentieri selvaggi (film della vita di Cimino? No: lo ama tantissimo però…) grida: «Enrico! Sei tu quel pazzo!». Cimino ricorda poi Il Siciliano e il lavoro sui costumi: «Torelli mi disse che non aveva più lavorato tanto dai tempi di Visconti. Per me un complimento immenso». Nel pubblico siede anche Kathy Haber, assistente di Sam Peckinpah per moltissimi anni, che ha lavorato con Cimino proprio per Il Siciliano. «Sam Peckinpah è stato un grande regista. L’ho conosciuto personalmente», spiega Cimino. Era amareggiato perché non riusciva più a fare i suoi film» e ovviamente sembra che Cimino stia parlando di se stesso.
Le domande si susseguono a raffica. Cimino vuole sapere i nomi di tutti. Riprende e sfotte quelli che scattano foto a ripetizione e che scrivono senza sosta: « Come fate a scrivere se non ascoltate?» chiede feroce. Puntuali arrivano altre domande su Il cacciatore e l’incauto cinefilo si lascia un impacciato «oggi le guerre sono diverse», intendendo forse come filmirebbe i focolai del Medio oriente, e Cimino chiede con veemenza: «Come diverse? Forse le madri piangono in modo diverso i loro figli? Piangono diversamente i loro uomini?». Michael Cimino domina completamente il pubblico. Chantal Akerman mi dice: «che contraddizione vederlo così fragile esercitare tanto potere sul pubblico». Mi permetto di suggerire che forse tutto l’incontro con il pubblico, durato ben più di due ore, non è altro che un momento di autocoscienza, un tentativo di analisi collettivo. E Chantal sorride: «Forse hai ragione», dice.

E davanti ai nostri occhi l’immagine di un uomo, Michael Cimino, che ha sfidato Hollywood e che oggi, come un eroe di John Ford, sta ancora in piedi a raccontare la sua storia.