Per una vera riforma del Ministero per i beni e le attività culturali bisognerebbe cominciare con l’abolire l’attuale pretenziosa intitolazione, che crea soltanto illusione e confusione. E se proprio si volesse mantenere un’apposita, distinta struttura amministrativa, e non tornare alla sola Direzione generale delle antichità e belle arti in seno al Ministero per la pubblica istruzione, come sarebbe auspicabile, questa si dovrebbe chiamare semplicemente Ministero per la conservazione del patrimonio artistico nazionale. Perché questa è la funzione fondamentale ed esclusiva che compete a un tale organismo. Tutto il resto è appendice e indotto, estraneo ed esterno al suo compito istituzionale .
Ne consegue che gli addetti a tale compito sono per definizione «conservatori». Tutti i guai e i problemi che oggi affliggono questo settore della pubblica amministrazione, derivano, sono conseguenza dell’abbandono di questo essenziale presupposto. Abbandono iniziato con la creazione dell’apposito ministero e aggravato via via dalle tante altre improprie aggiunte e attribuzioni, cumulatesi negli anni, e che hanno finito con lo stravolgere e vanificare l’iniziale prevista sua funzione. Termini come promozione, valorizzazione, ecc. (aggiunti all’art. 117 della Costituzione nel 2001 ), sono stupidaggini inventate per creare posti alle varie tipologie di raccomandati.

PERCHE’ ACCORPARE?

E se oggi i principali problemi di questo ministero sono quelli dell’eccesso di direttori generali, dell’esubero di architetti, a fronte di una estrema carenza di archeologi e storici dell’arte (di formazione), lo si deve proprio a tale graduale, ma inarrestabile aggregazione di competenze le più disparate e eterogenee, che hanno finito per stravolgere i quadri dell’organico. Problema al quale non si può rimediare oggi «accorpando», ma anzi distinguendo e separando le specifiche competenze, anche per far emergere le distinte responsabilità. Tenendo sempre presenti le diversità, le specificità dei percorsi formativi e professionali del personale, finalizzati a compiti delicatissimi e difficilissimi, in cui la approssimazione e l’improvvisazione sono esiziali. È per questo che la proposta di inglobare le Soprintendenze storico-artistiche nelle architettoniche, è da respingere.
Se la ragione è quella della complementarietà dei compiti, allora, anziché le storico-artistiche, dovrebbero essere «accorpate» le soprintendenze archeologiche, che del supporto degli architetti si servono assai più di frequente, tanto da dover ricorrere a professionisti esterni all’amministrazione.

Se invece la ragione è quella di ridurre il numero esorbitante di uffici, allora sarebbe meglio sopprimere alcune sedi, come propone Tomaso Montanari, il quale afferma che quella dell’accorpamento sarebbe una operazione «piena di rischi», posto che, afferma con una punta di ironia, «la sinergia tra architetti e storici dell’arte è una chimera». Montanari non spiega però, e forse non sa, mancandogliene, per ragioni anagrafiche, l’esperienza diretta, perché tale sinergia appaia come una chimera. Ma come buono storico dovrebbe essere informato sui conflitti di competenza e sui conseguenti danni al patrimonio che hanno sempre accompagnato quella «sinergia»: dall’inutile sistematico e distruttivo distacco degli affreschi all’eliminazione della decorazione plastica seicentesca di tante antiche chiese, soprattutto in Abruzzo, nel vano e sciocco tentativo di ripristinarne l’aspetto romanico, e ai tanti altri casi imputabili alla incauta sovrapposizione di funzioni sia in ambito decisionale che operativo.

Nel campo della tutela del patrimonio artistico non esiste, non può esistere terra di nessuno. Come lo storico dell’arte non può presumere di intervenire sui problemi di conservazione e restauro dei monumenti architettonici, non avendo la necessaria preparazione tecnica, così gli architetti non possono intromettersi nel lavoro dello storico dell’arte, soprattutto a livello politico-decisionale, nelle scelte operative e conseguente destinazione dei fondi. Non si tratta quindi di arroccamenti e atteggiamenti superbiosi assunti dai «talebani della tutela», come li definisce spiritosamente Montanari, si tratta della possibilità o meno di svolgere in assoluta autonomia un compito per il quale ci si è preparati in anni e anni di studio, che si è assunto come specifica professionalità e viene svolto con sacrificio, anche economico. Un compito che è stato loro affidato dallo Stato per pubblico concorso, cui non possono venir meno, pena danni gravissimi all’unica vera ricchezza del Paese. Anziché talebani bisognerebbe tornare a chiamarli, come loro spetta «funzionari tecnico – scientifici», o, se si vuole evidenziare la loro vocazione, perché di questo si tratta, «sacerdoti». E per tale loro funzione rispettarli e non deriderli, e tanto meno vanificare da una poltrona alla Camera o al Senato il loro faticoso, ma provvidenziale lavoro. Che questi funzionari svolgano poi bene o male il loro lavoro è un’altra faccenda, che riguarda chi li ha destinati a quel posto e per quali vie.

IDEE SPARSE

Se è poi vero, come tante volte enunciato nelle leggi e nei proclami, che questi beni sono patrimonio dell’umanità, i loro custodi, nel nostro caso i funzionari tecnico-scientifici delle Soprindenze, dovrebbero rispondere del loro operato non al ministro di turno, non al governo in carica, ma all’intera umanità.

Ciò detto vorrei tornare alla proposta di riforma del Mibact, che tanto ha agitato le acque. Ma invece di aggregarmi al coro delle facili contestazioni e conseguenti polemiche, e, sulla base della mia duplice esperienza – come funzionario tecnico-scientifico e come professore universitario – provare invece ad avanzare qualche ragionevole proposta.

Premettendo che alla base di ogni modifica sono da porre i sacrosanti, ineludibili principi enunciati nei tre volumi della Relazione ministeriale del 1964, compilata in tre anni di lavoro, e che prende il nome dal presidente della commissione on. Franceschini (ironia della sorte), si può procedere anche per accorpamenti, previa una diversa, più razionale distribuzione degli uffici sul territorio nazionale.

L’accorpamento va fatto per distinte specifiche competenze, salvando quindi la piena autonomia, soprattutto decisionale, delle Soprintendenze, a cominciare da quelle storico-artistiche, in considerazione del fatto che esse, tra musei e territorio (in Italia non fa differenza alcuna), gestiscono un patrimonio infinitamente maggiore per numero di opere di quello delle consorelle alle antichità e ai monumenti messe insieme. D’altronde, basterebbe dotarle di adeguato personale per ridurle al numero di una per Regione.

Quando fui inviato a Palermo nel 1968, come ispettore di prima nomina, in Sicilia esisteva una sola Soprintendenza alle gallerie, composta di tre funzionari, il soprintendente, un direttore e un ispettore, che dovevano occuparsi delle opere dei musei e delle chiese di nove province. Sarebbe stato sufficiente triplicare il personale per rendere sufficientemente operativa quella struttura.
L’alternativa potrebbe essere quella di moltiplicare, anziché ridurre, il numero degli uffici, riducendo il loro organico, ma meglio distribuendo le sedi (tipo tenenze dei carabinieri). Ideale sarebbe dotare ogni comune d’Italia almeno di un architetto, un archeologo ed uno storico dell’arte. Curandone un po’ meglio la formazione, vi troverebbero utile occupazione almeno 24mila giovani.
Il ministero, se non del tutto abolito, dovrebbe essere fortemente ridimensionato. A partire dalle tante Direzioni generali, che dovrebbero essere in parte riaccorpate, in parte tolte di mezzo perché preposte a compiti impropri: va ricordato che l’unica Direzione generale alle antichità e belle arti in seno al Ministero della pubblica istruzione ha funzionato benissimo fino al 1975.