Fare cinema a soggetto può sembrare un paradosso per chi, come Mia Hansen-Løve, nutre un’«ossessione per la verità» ma è proprio nelle vie percorse per trovare il vero attraverso la messa in scena che è nato un linguaggio personale. Sempre alla ricerca della luce e della distanza giuste con cui filmare oggetti, luoghi e corpi, il suo è un cinema che affonda le radici nell’esperienza personale, famigliare, ma anche nella sua personale esperienza del cinema stesso: da un lato, la nouvelle vague di Truffaut e Rohmer, dall’altro Melville, Visconti e Bergman cui rende omaggio nel suo prossimo Bergman Island, «un film sull’ispirazione» girato sulla leggendaria isola di Fårö che è già pronto da un anno ma che la pandemia ha congelato. Nel frattempo, il Bergamo Film Meeting le ha dedicato una retrospettiva che ha permesso di ripercorrere alcune tappe della sua carriera dai primi corti fino a Maya (2018).

I suoi personaggi fanno i conti con la perdita di qualcuno, di un ideale di sé, di un sogno, di un amore. Che relazione c’è per lei tra cinema e lutto?

Nel mio cinema il lutto si lega al tema del perseguire una vocazione come scappatoia, via di salvezza dal dolore, dallo smarrimento. Sono però temi che mi si manifestano per necessità intima, non come esito di una scelta razionale.

Il modo in cui ritrae la vocazione è ambivalente: è così anche il suo rapporto con la scrittura?

È una questione delicata. Ho sempre voluto dedicarmi alla scrittura, forse per rimediare al fatto che mio padre è stato uno scrittore mancato, che ha tradotto, insegnato filosofia, firmato saggi ma mai un’opera letteraria. Però anche per me scrivere è difficile, angosciante, perché sono troppo esigente. Tranne quando si tratta di sceneggiature, forse perché ne ho un’idea meno sacrale rispetto alla letteratura, come di un passaggio verso altro. Quando avevo poco più di vent’anni ho scritto un corto sulla separazione dei miei (Après mûre réflexion) senza velleità letterarie ma spinta da un vero bisogno e non ho più smesso. Ci tengo molto a scrivere i miei film invece che adattare testi altrui perché mi sono formata con la nouvelle vague in cui scrittura e messa in scena sono organiche. In più, sceneggiare significa attingere dalla realtà per infondere verità a dialoghi e situazioni.

Come il protagonista di «Maya», giornalista che riesce a scrivere solo a partire da fatti concreti.

Penso che chi come me ha una propensione alla malinconia, ha bisogno di un ancoraggio alla realtà per non annegare nell’immaginario. I dialoghi che scrivo sono molto quotidiani perché mi perdo facilmente tra le idee astratte. Con Il padre dei miei figli ho capito quanto fosse importante veicolare idee e sentimenti attraverso la materia concreta. Filmare gli oggetti era un modo per raccontare l’anima del personaggio. Questo passaggio tra espressione terrestre e dimensione spirituale è la quintessenza magica e catartica del cinema. I luoghi, come gli oggetti, permettono di transitare dalla realtà alla finzione. Perciò giro in 35 millimetri: non solo per la qualità estetica del risultato ma perché la pellicola è un supporto tangibile e il processo di produzione fisico delle immagini mi fa venir voglia di continuare. Mi batto per questo anche contro i produttori che trovano assurda la mia ostinazione, ma un film come Bergman Island non potrebbe esistere in digitale.

Con «Maya» ha filmato paesaggi inediti nel suo cinema: cosa l’ha guidata verso Goa e come è riuscita a conciliare violenza e atmosfera paradisiaca?

Volevo raccontare la storia di qualcuno che cerca il suo posto nel mondo, che viaggia ma non riesce a mettere radici e per questo reca in sé una malinconia segreta un po’ come il produttore in Il padre dei miei figli, Sullivan in Un amore di gioventù o Paul in Eden. I miei personaggi maschili sono spesso avventurieri feriti, autodistruttivi, che fuggono. Li trovo seducenti ma anche vicini a me. Maya è nato in un momento di smarrimento, avevo bisogno di partire e ricostruirmi altrove. Il mio cinema è sempre in dialogo con la mia esistenza e Goa è un posto che amo anche se molti ritengono abbia perduto la sua anima. È un luogo rovinato, corrotto, violentato dal turismo. Non ho voluto negare tutto ciò ma ho cercato di ritrovarne il fascino. Verso i luoghi ho lo stesso atteggiamento che ho verso i personaggi: non faccio mai film contro qualcuno o qualcosa ma per amore. È quasi un presupposto morale del mio cinema, non potrei mai mettere in scena qualcosa che odio. Se in un luogo o in un personaggio non c’è nulla da salvare non posso filmarli. Non posso filmare il male assoluto perché in qualche modo sarebbe come riprodurlo e divertirsi facendolo. Ciò detto, lavorando con una troupe in parte indiana è stato duro tenere fede alla mia grammatica fatta di lunghe carrellate, imporre un approccio documentaristico andando per le strade e sulle spiagge con una troupe leggera, senza comparse, ma ci sono riuscita e ne sono fiera.

Lei non filma «contro» ma «L’Avenir» va contro un certo immaginario dominante sulle donne mature.

Cerco sempre, forse illusoriamente, di dire qualcosa di nuovo. L’Avenir nasce dall’aver osservato mia madre reagire a un momento di crisi: aveva perso sua madre, noi figli lasciavamo casa, sul lavoro si chiudeva una fase… Ma lei è rinata e non perché abbia incontrato un nuovo compagno, come se per le donne la salvezza fosse trovarsi un uomo, ma perché il carattere e la saggezza acquisita con il suo mestiere d’insegnante le hanno dato la forza di rifarsi una vita. L’ho trovato consolatorio. Quindi quel titolo, che poteva sembrare crudele rispetto al destino di una donna matura, in definitiva non è né crudele né ironico per una protagonista che ama cose semplici, il passaggio delle stagioni, ritrovare un ex allievo, la nascita di un nipote.

Nei suoi cast mescola non professionisti e professionisti: cosa cerca da chi recita con lei?

Fino a Eden tutti i ruoli principali dei miei film sono stati interpretati da debuttanti o non-professionisti, poi ho voluto variare. Però cerco sempre una forma d’innocenza negli attori. Mi ricordo quando Huppert arrivò sul set de L’Avenir nel Vercors, era così felice di essere tra quelle montagne che mi commosse. Non cerco la performance attoriale, il pezzo di bravura, ma una presenza nuda e la capacità di smascherarsi.

Per «Bergman Island» ha lavorato con Tim Roth e Mia Wasikowska, è stato difficile spingerli a levarsi la maschera?

No, per nulla. Mia per esempio ha trovato il modo di calarsi nel mio mondo ritrovando con una certa leggerezza la sua «innocenza» rispetto al lavoro. Giravamo sull’isola di Fårö con poca luce e ho notato in lei il piacere della novità, mi ha detto che era la prima volta che con una troupe attendeva la luce giusta per una scena.

Qual è il Bergman a cui si sente più legata?

Difficile scegliere ma posso citarne uno meno noto e apprezzato come Touch con Elliott Gould e Bibi Andersson perché è girato a Visby dove ho passato dei mesi mentre lavoravo al film. Quando l’ho rivisto dopo aver girato Bergman Island ho provato una grande emozione nel riconoscere luoghi divenutimi familiari.

A lei che in «Eden» ha raccontato il mondo dei dj nella Parigi anni Novanta e la nascita dei Daft Punk non si può non chiedere come ha vissuto lo scioglimento del duo.

Con grande tristezza, come il coronamento di un anno difficile in cui si sono chiusi molti capitoli e ho perso mio padre per via del Covid. La separazione dei Daft Punk può sembrare qualcosa di poco conto ma è il simbolo della fine di un’epoca.