Che idea originale si può mai trovare per fare gli auguri alle colleghe e ai colleghi che ogni giorno rinnovano una storia lunga cinquant’anni e fanno il manifesto? Meglio non provarci nemmeno, mi son detto quando Norma Rangeri mi ha invitato alla «festa».

(E che festa! Mezzo secolo… E che allegria vederla arrivare, soprattutto oggi, in tempi in cui fare il nostro lavoro a schiena diritta è più utile e più complicato, più avversato e più appassionante che mai).

Se c’è un giornale, infatti, che è riuscito a diventare sinonimo di originalità, nel senso non di stravaganza, ma di riconosciuta fedeltà a una ispirazione e di sicura efficacia nel lasciare il segno con titoli e cronache e opinioni forti e mai volgari, capaci di dare battaglia e fare sintesi, di schierarsi e di schierare, di incidersi comunque nella memoria, questo è questo accurato e denso «quotidiano comunista».

L’unico giornale italiano, oltre a quello «cattolico» in cui io lavoro, a dichiarare apertamente il luogo ideale dove comincia, ma non finisce, il proprio sguardo sulla realtà. Il manifesto e Avvenire sono giornali che hanno nome e cognome in una platea editoriale dove ben altri «cognomi» ci sono, eccome, e pesano, e sono sempre di meno, e controllano sempre di più, ma si fa finta di no.

Non sarò originale, dunque. Ma sarò sincero. Il manifesto – l’intelligenza delle cose dei colleghi e delle colleghe di questo giornale – mi piace, e non solo quando mi piace. Anche quando il disaccordo è forte. Persino quando è totale.

Non solo cioè quando – con un sorridente imbarazzo che, dai e dai, ormai è andato scemando e non spinge neanche più i bolsi «esorcisti» del mostro catto-comunista a menar scandalo – ci ritroviamo ad aprire allo stesso modo la prima pagina e, magari, a scegliere le stesse esatte parole.

Succede, quasi sempre, lungo i crinali delle persecuzioni e delle migrazioni forzate, nei recinti e per le strade del lavoro sfruttato, tra i fumi e i deserti dei cambiamenti climatici, davanti ai muri e dentro e alla disuguaglianze e a ogni altra guerra (perché ogni disuguaglianza è una guerra contro le donne e gli uomini).

Il manifesto mi piace per come fa le sue cronache e spende le sue opinioni anche quando, per me, sbaglia.

Per esempio, con il pensatore, grande e dialogante, Ratzinger presentato, il giorno dell’elezione papale, con fulminea irrisione come un cane da guardia (e il ripensamento, se c’è stato, magari per la fermezza contro gli abusi sui piccoli o dopo la Caritas in veritate, non è mai diventato esplicito). O con il rivoluzionario, solidale ed ecumenico Bergoglio, accusato di essere l’esatto contrario del Francesco che s’annunciava e del paziente e temerario soccorritore di minacciati che era stato nell’Argentina dei «desaparecidos» (e qui il ripensamento c’è stato, e s’è fatto addirittura stampa e diffusione di un libro con i discorsi del Papa ai movimenti popolari).

Le copertine sugli ultimi tre papi

Auguri veri, dunque. Anche di nuove, convinte parole comuni tra il manifesto e Avvenire. Un po’ più egualitari loro, un po’ più fraterni noi, allo stesso modo liberi. E, sempre, dalla parte dei deboli e delle vittime, che sbagliata non è mai.

Marco Tarquinio è il direttore di Avvenire