Stavolta per il Pd potrebbe davvero essere il big bang. Difficile che la riunione della direzione convocata per domani pomeriggio a Roma (al centro Congressi di via Alibert) sia l’occasione «per tenere unito il partito» come i renziani di stretta osservanza assicuravano solo pochi giorni fa. Oggi l’aria è cambiata. Ed è l’ennesima volta che succede nell’ultima settimana, riflesso dei continui cambi di umore e strategia di Matteo Renzi.

Alla vigilia dell’appuntamento – dove, è bene ricordarlo, il segretario mantiene ancora una solida maggioranza in termini di voti a differenza dei gruppi parlamentari dove ormai domina l’incerto – le anime del Pd si posizionano nelle rispettive trincee. Renzi fa filtrare la sua intenzione-minaccia di dimissioni «tecniche» per portare il Pd al congresso immediatamente prima delle amministrative. La minoranza, che pure in un primo momento aveva chiesto proprio il congresso anticipato, minaccia la rottura.

«Rottura» è la parola usata ieri dal deputato Davide Zoggia, ormai il più dalemiano fra i bersaniani: «Le premesse sono pessime, c’è il rischio di una rottura. La direzione del Pd ormai è come un quiz per scoprire cosa dirà il segretario. Peccato che non siamo al gioco dei pacchi, qui c’è in ballo il futuro del Pd».
In ballo c’è il paese, in realtà. Perché la posta in gioco, oltre alla stanza da segretario al secondo piano del Nazareno, è piuttosto quella al piano nobile di Palazzo Chigi. Che Renzi vorrebbe rapidamente riaggiudicarsi. In prima istanza attraverso il voto a giugno, ma in subordine anche attraverso le assise anticipate del suo partito: perché è chiaro che l’attuale presidente Gentiloni sarebbe  stritolato da un congresso a colpi di minacce e delegittimazioni reciproche. Del resto andò così anche tre anni fa: l’allora governo di Enrico Letta non resistette più di due mesi all’impaziente ascesa del segretario neoeletto.
Non a caso le minoranze, riunite da ieri in un convegno a Firenze, ormai sono attestate sulla linea del no a tutto, almeno tutto quello che minaccia di svolgersi in pochi mesi. Dice Roberto Speranza, in corsa per la segreteria: «È interesse del paese tenere elezioni tra quattro mesi? Non è forse più ragionevole usare la forza parlamentare del Pd per fare due o tre cose utili?». Rincara Francesco Boccia, deputato oggi ultrà del presidente della Puglia Michele Emiliano tentato dalla stessa corsa: «Serve un congresso vero, senza trucchi o scorciatoie», un confronto «che parta dai circoli e si concluda con le primarie tra fine giugno e settembre: farle prima significherebbe organizzare una farsa». Oggi a Firenze oltre ai due parlerà anche Enrico Rossi, presidente della regione Toscana e a sua volta pretendente al posto di segretario del Pd.

L’iniziativa che vede i tre sfidanti insieme non riuscirà a riunirli contro il segretario. Da Firenze arrivano anche apprezzamenti verso il ministro Andrea Orlando, altro papabile, qui lodato per la proposta «di un congresso profondo, di un momento vero di ricostruzione del Pd». Che avrebbe anche l’indubbio pregio, per le minoranze, di non essere imminente.
«Il Pd non è un partito. La democrazia è organizzazione, non improvvisazione», ha ammonito ieri sul quotidiano Nazione-Carlino-Giorno lo storico dirigente Pci e direttore dell’Unità Emanuele Macaluso. L’incertezza, forse proprio l’improvvisazione della strategia renziana fa sbandare tutti: l’opposizione Pd, i militanti ma ormai anche la maggioranza.