Per ridare vigore alla politica pare serva il voto dei sedicenni, e cioè dell’alunno del primo liceo, dell’apprendista d’officina e della massa sterminata di ragazzi che non lavorano, non studiano ma con i cellulari – oltre a immergersi in TikTok – si informerebbero su stato, parlamento, governo, partiti, sindacati, movimenti.

Con il mio primo voto, a 21 anni, scelsi il Pci, deludendo il grande amico Raniero Panzieri, socialista. Avevo però alle spalle rapporti «operaisti» con i braccianti, gli edili, gli operai della Fiorentini e della Fatme e tra loro non v’erano socialisti.

NEL PASSATO LE IDENTITÀ politiche erano semplici: i maestri elementari, gli insegnanti di scuola media e gli impiegati, statali e privati, erano democristiani; i lavoratori manuali votavano comunista. Medici e avvocati potevano essere socialisti o repubblicani; interclassisti erano i fascisti, quelli del Msi.

La semplificazione non rispondeva certo alla realtà, ma lo era nell’immaginario collettivo. Per chi «sapeva come girava il mondo», all’origine delle scelte politiche vi erano le parrocchie, le sirene made in Usa, e quelle made in Mosca.

Il Pci si dichiarava sicuro del sostegno elettorale di coloro che credevano nella sua – dichiarata e gridata nei comizi – politica/progetto: cambiare le relazioni di subalternità nei luoghi di lavoro. E coloro che le subivano, lo votavano.

Quando nel 1956 alcuni intellettuali comunisti strapparono la tessera, indignati per la ferita della rivolta ungherese, gli operai non batterono ciglio, presi come erano dalle proprie ferite, dalla prima offensiva padronale di successo dal dopoguerra. Stava cambiando l’organizzazione del lavoro, e con essa l’informale compromesso per cui «in fabbrica lavori, ma fuori puoi anche frequentare la sezione».

Il compromesso si reggeva sull’ipotesi che il partito, considerato agli ordini di Mosca, potesse altrimenti creare instabilità.

Col tempo prese sostanza una ben diversa prospettiva: il partito, creatosi il suo apparato, si stava definendo come avversario elettorale ben più che alternativa politica, antagonista sociale, provvisto di una cultura appropriata ai cambiamenti in corso.

A mancare era proprio la cultura politica, il potere della cultura: da un lato vi era l’universo cattolico in consonanza con l’establishment economico-finanziario, con la quasi totalità dei mass media, con i piccoli e grandi intellettuali, e dall’altro lato uno stato crescente di disgregazione esistenziale dei lavoratori manuali.

La disgregazione era materiale, dovuta alle innovazioni tecnologiche ed era ideologica, pesantemente influenzata dalla disunione sindacale, tanto a cuore agli uomini al potere, quello privato del singolo padrone, quello geopolitico che a Roma arrivava dal di là dell’Atlantico. Altro che l’Urss, già impaniato in una crisi irreversibile.

L’impotenza del «suo» referente nei luoghi di lavoro fu la scoperta che via via rese inutile il partito per coloro che lo consideravano la propria sponda di difesa.

Nel 1984 la sconfitta nella battaglia per la scala mobile segnò la fine della visione del partito quale arcangelo vendicatore del mondo del lavoro. Nei pochi anni seguenti il divorzio si compì con il ricambio dei dirigenti nazionali del Pci che fu non solo generazionale ma ancor più di orientamento geopolitico.

LA MATRICE IDEOLOGICA originaria del partito fu nascosta sotto il tappeto, e sostituita da uno esplicito desiderio di andare al governo. Per quel desiderio, la platea di elettori era da cambiare, e si attraversò il mar rosso del mondo del lavoro manuale per accamparsi sulla spiaggia del ceto medio «riflessivo», a cui stanno a cuore i diritti di tutti, dai disabili agli alcoolisti. Quanto ai problemi del lavoro si possono affrontare con il reddito di cittadinanza, una soluzione che rende possibile stringere alleanze con altre forze politiche.

La prima alleanza è stata con quei democristiani usciti indenni dalla bufera di tangentopoli, ne è nato poi un partito, metà Pci, metà Dc col nome di Pd, dove accanto alla pietas per i diseredati della terra, ha fatto aggio l’esperienza democristiana su quale cultura di potere e di governo si fondano le mosse politiche per conquistare il governo. Difatti le poche esperienze di governo del Pd sono ascrivibili quasi tutte al saper fare dei politici professionali di ascendenza democristiana.

Quando, per pochi mesi, divenne presidente del consiglio un politico professionale di origine comunista colse l’opportunità per farsi legittimare dall’intero mondo, e all’epoca delle guerre balcaniche degli Usa di Clinton, ne diede prova con la sua acquiescenza per le bombe su Belgrado, la città che quasi certamente aveva conosciuto «da compagno».

Col tempo l’agire del partito, ex Dc-ex Pci, ha mostrato la sua incapacità di far fronte allo stato delle cose, creato dalla sua incapacità: da Berlusconi all’exploit della Lega e dei fascisti sino all’emersione del fungo cinquestelle. Proprio però quando il Pd stava scivolando nel baratro elettorale del 14%, ecco arrivare dal cielo celeste ben due salvatori della patria, ambedue estranei a quel pezzo del partito, le cui lontanissime origini, più volte rinnegate, risalivano al dopoguerra.

AI DUE SALVATORI SPETTA di raddrizzare l’economia, la società, la politica. Le grandi aspettative createsi dipendono dal fatto che entrambi sono esponenti dell’élite e come tali sono promossi a priori, qualsiasi iniziativa intraprendono.

Il maestro del nuovo segretario del Pd è stato il professore della Cattolica Beniamino Andreatta, senatore e ministro, il suo mentore Romano Prodi, e insegnare la scienza della politica contemporanea è il suo ultimo impegno professionale. Altro che Di Vittorio.

Il ritorno dell’élite nei ruoli di governo riconsegna la politica a coloro che sanno, e chiude la stagione dove la spinta al voto era l’abbaglio ideologico oppure un concreto voto di scambio.

È inteso che coloro che sanno agiscono per il nostro bene e noi siamo chiamati a ringraziarli, a rinnegare il sistema politico dell’ultimo travagliatissimo mezzo secolo. È proprio così?