La ricerca di Sandro Mezzadra, da qualche anno compiuta in relazione con Brett Neilson, qualifica una discontinuità teorica nella tradizione qualificata come operaista: mobilità della forza lavoro e dimensione globale della governance sono il terreno decisivo su cui si misurano categorie analitiche e proposta politica.

In «Border as a Method», viene presentata una originale «costellazione» del capitale. La nozione di «moltiplicazione del lavoro», in particolare, afferra in modo perspicuo la «grande trasformazione» nella quale siamo immersi. È ancora possibile una politica comunista prendendo sul serio l’irriducibile molteplicità delle figure dello sfruttamento da voi così ben censita?
Il mio lavoro con Brett, Border as Method ma anche il nuovo libro che abbiamo appena finito di scrivere (The Politics of Operations. Excavating Contemporary Capitalism), è un tentativo di definire un metodo per comprendere criticamente la dimensione «globale». Credo che fosse chiaro già in Border as Method: nel nuovo libro, in ogni caso, affermiamo esplicitamente che questo metodo ha senso per noi nella misura in cui nutre la ricerca di una politica comunista. La dimensione «globale», dicevo. Marx pensa in questa dimensione, già nei suoi anni giovanili, il comunismo. «Mercato mondiale» e «internazionalismo proletario»: critica dell’economia politica e politica comunista hanno per lui come sfondo il mondo. Una straordinaria «forza-invenzione» (per riprendere una categoria dei nostri classici, dell’operaismo degli anni Sessanta): è certo più facile oggi di quanto non fosse a metà dell’Ottocento vedere le connessioni globali che legano la forza lavoro! Poi, certo, pensare e agire una politica di questa forza lavoro globale è un’altra storia. Le operazioni del capitale hanno efficacia globale: come fronteggiarle? La nozione di «moltiplicazione del lavoro» segnala tutte le difficoltà di questa impresa. Al tempo stesso, tuttavia, indica anche – «in positivo», per dir così – qualcosa di fondamentale: una politica comunista, oggi, non può che assumere come presupposto la «molteplicità», l’irriducibilità della «differenza». La lezione femminista, su questo punto, è per noi fondamentale.

«Dualismo dei potere» e «rivoluzione permanente», due concetti chiave per pensare il 1917, di cui quest’anno ricorre il centenario. Viviamo un’altra congiuntura. Eppure non possiamo in alcun modo sfuggire, se vogliamo riflettere sull’attualità del comunismo, il problema del potere. Quale dunque dei due concetti appena citati salveresti?
Il «dualismo del potere» è per me una categoria di straordinaria importanza. In The Politics of Operations cerchiamo di indicare, chiudendo il libro, alcune linee di ricerca su questo tema. Ed è quasi superfluo aggiungere che parlare del «dualismo del potere» significa parlare di Lenin. Appena tornato in Russia, nell’aprile del 1917, Lenin scrisse che dopo la rivoluzione di febbraio c’erano due poteri: quello del governo provvisorio (il «governo della borghesia») e poi «un altro governo, ancora debole, embrionale, ma tuttavia reale e in via di sviluppo: i soviet dei deputati degli operai e dei soldati». Il genio di Lenin, nelle condizioni assolutamente peculiari (irripetibili) della guerra mondiale e della rivoluzione, consistette nell’indicare ai bolscevichi il compito essenziale: attendere l’occasione per spezzare quel dualismo, per organizzare l’insurrezione. Noi dobbiamo oggi rivendicare il genio di Lenin: ma questo può significare soltanto essere capaci di produrre – collettivamente – un’innovazione all’altezza di quel genio. Non abbiamo tempo per caricature e scimmiottamenti. Certo, il problema del potere rimane un problema fondamentale per la politica comunista: ma si tratta di pensare – e agire – questo problema in condizioni completamente nuove, tanto sul lato del capitale quanto su quello della composizione del «lavoro vivo». In due parole – come linea di ricerca e sperimentazione appunto: il nostro compito è pensare il dualismo del potere come formula politica stabile, che articoli una dinamica di lotta, trasformazione e governo attraverso l’istituzione di un sistema di contro-poteri.

Il vento bolivariano dell’America Latina è da molti interpretato, soprattutto in Europa, come rilancio della funzione strategica, per il socialismo, dello Stato. Conosci lo scenario politico latinoamericano e puoi chiarirci quanto anche oggi «socialismo in un solo paese» sia proposta insufficiente…
Conosco l’America Latina, è vero. Ci sono stato a lungo negli ultimi anni, ho seguito e in qualche modo vissuto i processi latinoamericani, in particolare a partire dall’incontro con il colectivo situaciones di Beunos Aires nel 2002. Che cosa è successo in America Latina negli ultimi quindici, vent’anni? Un formidabile ciclo di lotte ha aperto gli spazi al cui interno si sono sviluppate le esperienze dei nuovi governi «progressisti» (e dobbiamo considerli tutti insieme questi governi, nella loro eterogeneità, se vogliamo capirne qualcosa: Chavez e Lula, Morales e Krichner). «Le lotte vengono prima»: non so se funziona sempre, ma l’America Latina è un’illustrazione didascalica di questo motto. E le lotte hanno assunto a partire dall’inizio del nuovo secolo, in modo tanto tumultuoso quanto preciso, una scala continentale. I governi «progressisti» si sono innestati su questa scala, e i processi di integrazione degli anni 2000 sono stati una condizione essenziale della loro forza. In diversi Paesi, quel che dicevo prima sul «dualismo del potere» è sembrato trovare, sia pure a tratti e sempre in modo profondamente contraddittorio, un’esemplificazione. Ma oggi siamo di fronte alla crisi, all’esaurimento di quel ciclo politico.Quali sono le ragioni di questa crisi? Rispondo molto brevemente, ma anche chiaramente: da una parte il rallentamento dei processi di integrazione e il ripiegamento dei governi «progressisti» sulla dimensione nazionale; dall’altra l’assunzione dello Stato come centro privilegiato, se non esclusivo del processo di trasformazione e governo. È una questione di realismo politico: lo Stato, come ho scritto con Brett anni fa, non ha la forza sufficiente per fronteggiare le operazioni del capitale globale contemporaneo (né per spezzare il dominio del capitale, né per «mitigarlo» attraverso riforme più o meno radicali). Come dire? È necessario un altro potere; ed è necessario un altro spazio, al di là della nazione.

I tuoi studi sul nuovo regime migratorio ci propongono da tempo una riflessione sulle nuove gerarchie produttive segnate dalla «linea del colore», ma anche e soprattutto sull’inadeguatezza di una pratica politica incapace di attraversare e sostenere le lotte migranti. È possibile conquistare istanze comuni rifiutando la segmentazione etnica del mercato del lavoro e, soprattutto, la ripresa in forze, anche a sinistra, della tematica nazionalista?
È la posta in palio. L’incontro con la migrazione, già a partire dagli anni ’90, è stato per molti e molte di noi una specie di nuova scoperta del mondo – o semplicemente la scoperta di quanto era cambiato il mondo. Da quel momento, è vero, il tema della «linea del colore» è stato al centro delle mie ricerche, ma anche dei miei continui tentativi di fare politica. La migrazione mi ha mostrato, da un altro punto di vista rispetto al femminismo, il rilievo strategico della «differenza». Strategico nell’organizzazione dei rapporti di dominio e di sfruttamento; ma strategico anche nella costruzione di una politica della liberazione. Nessuno lo ha detto meglio di Audre Lorde, non a caso una scrittrice e poetessa femminista, lesbica, nera. È un brano che abbiamo citato in Border as Method; lo ripeto qui, in chiusura, come una sorta di assioma per la politica comunista a venire: «è all’interno delle nostre differenze che siamo più potenti e più vulnerabili; e alcuni dei compiti più difficili delle nostre vite consistono nel rivendicare le differenze e nell’imparare a utilizzarle come ponti tra di noi invece che come barriere».

***Sandro Mezzadra insegna Filosofia politica all’Università di Bologna. Il suo lavoro si è a lungo concentrato sulle varie questioni in gioco nello sviluppo della teoria politica contemporanea. Negli ultimi anni i suoi studi si sono particolarmente incentrati sulla relazione tra globalizzazione, migrazioni, cittadinanza e trasformazioni del lavoro, in dialogo con gli studi postcoloniali che ha contribuito a introdurre nel dibattito italiano e spagnolo. Tra le sue opere: «La condizione postcoloniale» (ombrecorte); «Nei cantieri marxiani» (manifestolibri); «Confini e frontiere» (con Brett Nielsen, Il Mulino).