Qual è il segreto di un cantiere? Perché si cammina in bilico sulle impalcature, come equilibristi «così prossimi agli alberi e agli uccelli», al fine di costruire un’abitazione che apparterrà a qualche sconosciuto? Perché ci si arrovella intorno a un lavoro ottuso, mortificante, in cui non riconosciamo le nostre reali attitudini? «Non siamo chiamati a niente perché mancano le parole», suggerisce Thierry Metz nel Diario di un manovale (pp. 224, € 14,00), che appare nell’attenta versione di Andrea Ponso per le Edizioni degli animali. Si tratta del resoconto in prosa (ma è come se i generi per Metz fossero banditi e la narrazione si dipanasse in forma ondivaga, a tratti mimetica), originariamente apparso da Gallimard nel 1990, riguardante l’esperienza lavorativa dell’autore, a contatto con i materiali da costruzione più disparati, «una torre Eiffel di barre, montanti, parapetti e tavole», che acquistano una dimensione metaforica, metaletteraria: «Manovale, c’è forse un cantiere in ciò che scrivi. Un giacimento. Ma per ora, ciò che costruisci a mani nude è solamente l’entrata attraverso la tua fatica».
Le annotazioni sono secche, frammentarie, oscillanti tra l’aspetto meramente cronachistico e la deformazione allucinata di una materia gretta, magmatica, senza colore, fatta di «pietre, calcinacci, terra, tutto il sottosuolo che illumina anche il gesto più insignificante». La scrittura stessa è equiparata a questo lavoro manuale, svolto in un’atmosfera di perenne sospensione, di incantamento («ritornare nel luogo dove la casa si schiude, per scorgere gli incantatori»), che procede a strappi, diventando «impalcatura nella parola» dominata da un senso di inerzia dissacrante, dai tratti quasi metafisici: «30 giugno. Si direbbe che non c’è nessuno, che nessuno verrà, oggi. I passi che sentiamo non vanno da nessuna parte».
Non c’è respiro, la narrazione è compressa nell’azzardo di parole scarnificate che sembrano esulare (esalare?) dalle descrizioni abbozzate di volta in volta, acquisendo altro significato rispetto alla loro ramificazione sulla pagina. Si ricorre a un pugno di versi per sottoscrivere un sillogismo dalla cadenza sfuggente, enigmatica: «Qualche nuvola. / Strette di mano. / Un lavoro. // Non è tutto: ci sono aquiloni nella mia voce». Si cerca di dare un senso a ciò che non ha senso con il solo ausilio di un’espressione apotropaica, concepita alla stregua di un feticcio. Bisogna «costruire lassù una casa di vento», edificarla con il «linguaggio di una madre». Sceverare in continuazione le spighe dell’inintelligibile dal fuoco di una percezione che ulcera lo sguardo, in un composito andirivieni di immagini che passano dal vuoto al pieno, simili al calco, al cardo di un corpo pompeiano. Tuttavia non grida Metz, ma «parla sottovoce», come asserisce Jean Grosjean nella prefazione, ribadendo che la banalità si trasforma in «meraviglia». Non è un caso che sia oltremodo presente il modello celaniano (ma anche quello, più recondito, di Char) e che Sur un poème de Paul Celan (1999) si intitoli una delle raccolte più significative di Metz, a cui idealmente bisogna aggiungere Lettres à la bien-aimée (1995).
Questa «parola contornata di oblio, di necessità» si innerva intorno alla registrazione di eventi marginali, infinitesimali, riavvolgendosi a spirale su sé stessa e documentando la propria endemica insufficienza a rapportarsi al reale in maniera adeguata, costruttiva a un senso che le è irrimediabilmente negato: «Non siamo chiamati a niente perché mancano le parole». Il logos ha connotati che non collimano con gli oggetti descritti: «Occorre che un linguaggio si isoli da tutto questo, si assenti, per parlarne?». Predomina lo sforzo abortito di capire ciò che non si può capire, un libro non è che una collezione di fantasime, di apparenze che si aggirano «nell’arcobaleno» di una definizione sbagliata. I colleghi stessi, nonostante siano caratterizzati dal sigillo dei patronimici, sono ectoplasmi, lemuri che si arrampicano sulle impalcature come «un escursionista smarrito in un cantiere». Il manovale si accontenta di sgranare il rosario dei propri gesti quotidiani come se si trattasse di un rituale pagano che lo crocifigge, lo lascia «nudo nella sua parola». Ma questa «voce da rabdomante» paragonabile «alle strida degli uccelli», registrata con l’unico intento di essere plasmata in una manciata di righe, la sera, a contatto con un irredimibile «inverno di fatica», non ha nulla di salvifico, sfociando nella «collera nera del papavero».
Numerose sono le descrizioni di nuvole e uccelli («come farsi pettirosso, qui?»), come se queste continue digressioni, divagazioni su un lavoro che si svolge «tra le coincidenze della casa e del mondo», formassero un anacronistico trattato di ornitomanzia, di aruspicina: «1 agosto. Poco importa dove siamo. C’è il cantiere. Sempre. C’è qualcosa che non si aspetta, la pietra, l’uccello, l’uomo. L’arcobaleno di tutto questo. Il dolmen». La parola ha la consistenza del cemento, della malta, delle assi di legno sulle quali manovali e muratori sfidano l’horror vacui mentre rondini sfrecciano in controluce, suggerendo a Metz l’uscita «dalla cripta insonne dove si ammucchiano risa e rabbia».
La semplicità stessa con la quale l’esistenza si avvita intorno alla scrittura deriva da un’autenticità che ha pochi referenti in area non solo francese, vissuta attraverso le stigmate inconfondibili di esperienze che prefigurano quella che Jacques Brémond ha definito una «fine senza remissione», avvenuta nel 1997, a poco più di quarant’anni (si pensa a Salvia, Pagnanelli, Benzoni…).
In tal senso sarebbe stato preferibile arricchire un libro così decisivo, fortemente voluto dall’editore Riccardo Corsi che aveva precedentemente curato e tradotto Sulla tavola inventata (2018), con una serie di apparati critici e documentari che inquadrassero in maniera più esaustiva la figura dell’autore, facendo riferimento soprattutto alla tragica scomparsa del secondogenito, che orientò in maniera irreparabile la sua deriva psichica, manifestata in esiti di lapidaria efficacia: «Scrivo nell’ortica, non nella rosa».