«Contro il logorio della vita moderna» Ernesto Calindri proponeva – nella pubblicità televisiva degli anni Sessanta – di bersi un amaro Cynar. Nel settembre 2021, sulla lunga coda di un periodo duro per la nazione e i suoi cittadini (e per tutto il mondo) la Fondazione Empatia Milano propone in piazza XXV Aprile una gigantesca scatola da scarpe fuori scala, come se noi fossimo Pollicino e i nostri piedi calzassero i sandali di Polifemo. Un parallelepipedo marrone in piazza a Milano. Camminando per il centro, tra Brera, alla fine di corso Garibaldi – la Milano bene, la Milano da bere, la moda – di fianco al cinema Anteo, accanto alla mega sede della fondazione Feltrinelli, alla Passeggiata Pasternak, tavolini e aperitivi, svolti l’angolo e te lo trovi davanti.

Cosa sarà? Un regalo fuori stagione per Gulliver caduto dalla slitta di Babbo Natale. Un pacco Amazon andato perduto nella fretta da spedizionieri distratti. Una boutade del comune di Milano per comunicare chissà cosa. E invece no. La grande scatola che somiglia in tutto e per tutto ad una confezione di cartone per calzature è l’istallazione Mettiti nelle mie scarpe, adattamento italiano dell’opera d’arte esperienziale A Mile in My Shoes del londinese Empathy Museum, ideata dall’artista e curatrice inglese Clare Patey. L’etichetta collocata sulla maxi scatola da scarpe invita: «Entrate nel nostro negozio di scarpe e provate a mettervi nelle scarpe di qualcun altro. Il negozio è aperto dal 21 al 28 settembre dalle ore 13.00 alle ore 20.00».

Cosa succede a chi entra là dentro? Nella scatola si sta in solo due persone per volta. Sulle scaffalature sono riposte confezioni da scarpe, mp3 e cuffie (tutto sanificato a ogni uso). Dentro il container ci sono delle frasi stampate sulle pareti: ‘Non giudicare il tuo prossimo fino a quando non cammini per due lune nei suoi mocassini’ (proverbio Sioux); ‘Noi attori capiamo meglio di chiunque altro quanto ‘mettersi nei panni degli altri’ sia un esercizio dell’anima che aiuta: per questo bisognerebbe fare teatro nelle scuole, perché mettersi nei panni degli altri è una cosa che può contribuire a costruire veramente una società migliore’ (Elio Germano, attore); ‘The biggest deficit that we have in our society and in the world right now is an empathy deficit. We are in great need of people being able to stand in somebody else’s shoes and see the world through their eyes’ (Barack Obama, politico).

Si viene accolti da una persona che interroga l’avventore. La prima domanda: «Che numero di scarpe hai?». Perché tutto nasce da lì, da un numero di piede in comune. Il ‘venditore’ continua a chiedere: «Come ti senti oggi? Hai voglia di ascoltare una storia intensa o una più leggera, perché per il tuo numero ne ho due, una di uomo e una di donna» (per esempio). E in base alla risposta si trova il paio di scarpe appropriate (che sono state donate dei protagonisti delle storie apposta per l’occasione). Una volta calzate, si prendono le cuffie e si esce all’aperto camminando e ascoltando. Oppure se non si ha voglia di passeggiare, all’esterno si trovano quattro sedute dove riposare 12-15 minuti immergendosi nella vita di un altro.

Nel ‘negozio’, da una parte, vengono riposte le scarpe delle persone che le indossavano all’entrata e che, alla fine dell’esperienza, vengono ridate indietro. Come ultima cosa viene chiesto, a chi vuole, di lasciare una reazione a caldo, scritta su un foglio da attaccare fuori con una puntina, riempire un questionario con un minimo di dati personali, il tema delle storie ascoltate, l’effetto che hanno prodotto, i pensieri che hanno sollecitato.

Per questa prima edizione italiana sono state raccolte da Fondazione Empatia Milano, poi montate dai registi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti e musicati dal compositore Massimo Mariani, ventuno storie. Le storie sono frutto di una lunga formazione fatta di incontri, racconti, scambi: cosa mettere a fuoco, cosa lasciare in campo lungo, quali dettagli possono contribuire all’immedesimazione dell’ascoltatore: una dovizia di particolari, qualcosa che accende e fa risuonare nell’altro il pensiero: «è successo anche a me». La disposizione all’ascolto parte dall’indossare qualcosa che è appartenuto a qualcun altro.

La forza del format è nel passaggio fisico dalle proprie calzature a quelle di un altro, come si dice in Italia «mettersi nei panni dell’altro»: cosa suscita? L’intimità e l’ascolto. Si possono incontrare vite difficili, vulnerabili, in salita; avventure quotidiane, successi e insuccessi, prove di forza, esempi e modelli di vita. L’intenzione è quella di stimolare la capacità di immedesimazione dell’altro, accendere la volontà di costruire una comunità di appartenenza senza giudizio, con la unica, consequente, inequivocabile possibilità di includere (e non il contrario), annullando le differenze.

Empatìa s. f. [comp. del gr. en «in» e -patia, per calco del ted. Einfühlung (v.)]. – In psicologia, in generale, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. Nelle scienze umane, l’empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell’altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale.

C’è la storia di Manlio, che è storia con la esse maiuscola. Manlio nel 1974 si trova in piazza della Loggia al momento dello scoppio della bomba. Ha perso sua moglie, i suoi amici. Nel suo racconto è lucidissimo, calmo, quasi pacificato. Com’è possibile? Dice: «La strage è una disumanizzazione delle persone, espande la paura. Le persone sono oggetti da lanciare come messaggi». E ancora: «Quando dall’obitorio sono tornato in piazza c’erano migliaia di persone, alcune delle quali le conoscevo. Mi hanno detto: Tu sei stato colpito, ma ricordati che quella bomba ha colpito tutti. Erano solidali, una bomba, che uccide così a caso, ha un carattere collettivo, c’è il dramma personale ma anche quello collettivo». Manlio continua a credere: «La democrazia si può rinnovare soltanto attraverso la partecipazione. Quelle otto persone ricordano la storia simbolica di questo paese».

C’è una madre borghese, della buona parte dove stare, madre di quattro figli, che si ritrova con un figlio tossicodipendente e non sa che fare (fino a quando non lo accetta, e non accetta sé stessa, con i suoi limiti). C’è Ramla, una ragazza somala emigrata con la famiglia da bambina in Inghilterra che, come prima persona al mondo, partecipa ai giochi olimpici nella boxe femminile in rappresentanza della nazione Somalia (come reazione a eventi di bullismo in giovane età). C’è il tossico che esce dal tunnel aiutando altri come lui; c’è chi conosce la differenza e impara a rispettarla nella povertà di una famiglia di sei figli che ne adotta un settimo con la sindrome di Down. C’è la ragazza epilettica che smette di avere paura di tremare davanti a tutti, c’è la giovane palestinese che, a dispetto degli insegnamenti paterni verso un’emancipazione femminile, sceglie di indossare il velo ma diventa stilista di successo. C’è il bene e il male, la sofferenza e la gioia di vivere, c’è la voglia di stare insieme uniti, di imparare a sentire insieme delle cose, quelle giuste, che feriscano, addolciscano, migliorino, sviluppino i sensi, accrescano in ognuno il desiderio contagioso ad aiutare gli altri, l’altro da sé. Empaticamente.

Un progetto di Fondazione Empatia Milano, realizzato con la società Piano b, con il contributo di Fondazione di Comunità Milano, con la partecipazione di Levi’’, Fondazione Idea Vita e Fondazione De Agostini.