L’economista Jean Paul Fitoussi usò una metafora per spiegare perché l’Occidente non riesce a uscire da una crisi che si sta trascinando dagli anni Trenta del Novecento: «Mettiamo i lampioni nei posti sbagliati». Questa metafora è quanto mai appropriata per capire come mai ci siamo trovati così impreparati ad affrontare la pandemia che ogni governo sta tentando di gestire a modo suo.

Trattandosi di un virus che provoca patologie molto gravi, in alcuni casi mortali, è logico che i governanti abbiano interrogato prima di tutto i medici per capire come gestire il problema della cura dei malati infettati dal Covid-19. E i medici hanno risposto dicendo che ci vogliono più letti negli ospedali, soprattutto in terapia intensiva e tamponi per rendere certa la diagnosi.

Il secondo passo è stato quello di interrogare virologi, epidemiologi, statistici per prevedere come e quanto si diffonde il virus e adottare misure adeguate a contenere la diffusione. Poi, avendo capito che le misure al momento disponibili possono solo attenuare l’epidemia ma non eradicarla, molte risorse economiche sono state destinate alla ricerca di un vaccino e di farmaci efficaci, mobilitando i biotecnologi e farmacologi.

Ma, sebbene sia ormai fin troppo chiaro che questa ennesima zoonosi, cioè trasmissione dell’agente patogeno dagli animali all’uomo, sia dovuta all’alterazione dei rapporti interspecifici esistenti in natura e alla cattiva gestione degli ecosistemi naturali, non si è ritenuto opportuno coinvolgere gli ecologi e gli zoologi nell’ampio dibattito in corso.

Il giornalista del National Geographic David Quammen ci aveva avvertito otto anni fa del pericolo rappresentato dalla eccessiva vicinanza dell’uomo agli animali selvatici nel suo saggio intitolato proprio Spillover, cioè salto di specie.

E aveva anche denunciato la necessità di farla finita col commercio di animali selvatici a scopo alimentare e di loro parti a scopo terapeutico. Gli wet market, dove i banchi sono bagnati dal sangue, dal contenuto delle viscere e dagli escrementi di pangolini, pipistrelli, zibetti che vengono sacrificati sul posto per garantire l’autenticità e la freschezza del prodotto, hanno continuato a essere molto diffusi in Asia.

Se il mercato di Wuhan, da dove si è originata la pandemia, è stato temporaneamente chiuso, il commercio continua con l’esportazione di questi animali in altri Paesi asiatici.

Queste pratiche hanno radici profonde e un tempo rappresentavano forme di sopravvivenza o erano l’espressione di antiche culture ma ora esistono soprattutto per motivi economici.

Non mi scandalizzai a Bali quando, visitando una piantagione, sedicente “biologica”, di caffè, the, spezie e piante di cacao, mi fu presentato il luwak (zibetto), un piccolo mammifero notturno dal quale i Balinesi ricavano un caffè molto speciale, il kopi luwak, che si ottiene dalle feci dell’animale contenenti bacche solo parzialmente digerite. Ma poi venni a sapere che invece di raccogliere le feci nella foresta dove vive lo zibetto, i proprietari delle piantagioni lo tengono chiuso in gabbia per tutta la vita nutrendolo soltanto di caffè.

Questa non è più cultura ma solamente mercato: una tazzina di autentico kopi luwak può costare 15 euro e un chilo di caffè in grani viene venduto a 800 euro. E il mercato sta fagocitando anche la cultura trasformandola in oggetto di consumo.

Se vogliamo evitare che pandemie come questa si presentino in futuro, i nostri governanti dovranno convincersi che il problema va affrontato alla radice.

Si stima che 300.000 virus siano presenti nelle specie selvatiche e si ritiene che alcuni di loro siano già in grado di fare il salto di specie.

Dobbiamo mettere in campo tutte le nostre competenze, a partire da quelle ecologiche, se vogliamo assicurare la sopravvivenza non solo delle specie selvatiche ma anche della nostra. Se, invece, continueremo a mettere i lampioni nei posti sbagliati saremo costretti a procedere a tentoni senza imboccare mai la strada

*già docente di ecologia all’Università di Milano