La differenza che passa tra la finzione e la realtà quando si tratta di morti viventi è sostanzialmente una (oltre alla scomparsa delle dipartite per cause naturali): nel mondo della finzione l’apocalisse provocata dagli zombie coglie l’umanità del tutto impreparata, come se nessuna storia fosse mai stata scritta e messa per immagini. Forse solo in uno dei lavori più recenti di Romero, il regista usa un suo stesso film come materiale d’archivio televisivo che avrebbe dovuto informare i viventi di un fenomeno analogo all’incombente minaccia, naturalmente in modo vano. Mentre nella realtà, se mai dovesse accadere di affrontare uno zombie, sapremmo come comportarci, dopo tutti i film e le serie televisive prodotte. Quanto meno proveremmo con più convinzione a non farci mordere, qualora l’atto di spiaccicare la testa dell’orrido walker risultasse un’operazione troppo complessa soprattutto per i sedentari consumatori di serie tv.

Nel corso della nona edizione del Roma Fiction Fest, che oggi apre con The Last Panthers e Lea diretto da Marco Tullio Giordana, sabato 14 potremo vedere Fear the Walking Dead, ultima produzione in ordine d’apparizione sui morti viventi, spin-off di The Walking Dead. Ordine cronologico di natura puramente retorica perché le storie sugli zombie spuntano dietro l’angolo come i loro stessi traballanti e letali protagonisti.

Se i primi dieci minuti della serie madre sono qualcosa di stupefacente, con lo sceriffo Rick Grimes che si risveglia da un coma in un ospedale di Atlanta e scopre che il mondo come lo conosceva non esiste più, la costola ambientata a Los Angeles inizia alla maniera di un semplice drama con protagonista una famiglia composta da due genitori separati e i rispettivi figli alle prese con beghe quotidiane più o meno normali.

Una differenza sostanziale apparentemente a tutto vantaggio di The Walking Dead che senza troppi preamboli scavalla le colazioni a casa, la fretta di andare a lavoro, l’ex un po’ nervosa, i figli che hanno problemi, per mettere lo spettatore in uno stato d’ansia immediato e renderlo consapevole da subito, insieme ai personaggi, che il mondo è finito ed è necessario istituirne un altro. The Walking Dead in un certo senso è un trattato di politica classica, dove tornano d’attualità questioni come la legge di natura e quella positiva. E nel quale il conflitto tra il bene individuale e quello collettivo diventa estremo ma non per questo irriconoscibile ai nostri occhi.

I creatori di Fear the Walking Dead, che non sono degli sprovveduti, sapevano bene che non avrebbero potuto replicare i fatti di Atlanta. E perciò con lo spin-off, oltre a cavalcare l’onda del successo ottenuto con Rick Grimes e compagni, hanno immaginato di scrivere una storia diversa, meno politica e, almeno nelle prime puntate, più personale, giocata sulla difficoltà di comprendere il presente, il qui e ora. Suscitando nello spettatore un altro genere d’ansia: sapere quello che ai personaggi continua a sfuggire, neanche lo facessero apposta di non capire che quelli sono…morti viventi!

A Los Angeles, e nel resto del mondo, sta accadendo qualcosa di strano e nessuna autorità ne sta dando conto: il classico errore della crisi che si ritiene possa essere contenuta. Qualcuno percepisce che la situazione sta sfuggendo di mano senza comprenderne il reale motivo. Anche perché i morti viventi non sono ancora quelli putrefatti che si incontreranno mesi e anni dopo lo scoppio dell’epidemia. I walker emettono un suono animalesco, si muovono in modo goffo, alcuni di loro portano sul proprio corpo il segno di un morso, e niente più. E quando la polizia inizia a sparargli, sembra che stia esercitando la solita e inconcepibile violenza su dei comuni cittadini.
È l’irruzione del radicalmente nuovo. Il mondo non sarà più lo stesso e prima o poi i sopravvissuti di Los Angeles potrebbero incontrare Rick Grimes e non è detto che avverrà in modo pacifico.