I colori del cielo venato di rosso e le voci dei muezzin, che si rincorrono nell’invitare i fedeli alla preghiera del tramonto (salat al-maghrib). Dalla terrazza dell’antica Nassif House, nel cuore del Balad (la città vecchia di Gedda patrimonio Unesco) la percezione visiva incontra quella sonora, portando con sé una sensazione di grande pace interiore.
Sarà pure il momento, ma è proprio così mentre il vento fresco gonfia l’abaya nera che, per legge, devono indossare tutte le donne (le saudite con il capo coperto), lasciando svolazzare anche il tessuto del tradizionale copricapo maschile (ghutra). La forza della tradizione è inconfutabile nell’ultraconservatore regno dell’Arabia Saudita, luogo di nascita dell’Islam con le città sante della Mecca e Medina, mete del pellegrinaggio (Hajj e Umrah) che ogni buon musulmano deve fare, almeno una volta nella vita. Per molti artisti contemporanei locali, del resto, è la tradizione stessa il punto di partenza per aggirare l’ostacolo dei divieti, conferendo all’arte quel potere di sottrarsi alle interpretazioni univoche dei canoni imposti dalla società, rendendo così esplicita la necessità del possibile spiraglio di dialogo, riflessione, finanche contestazione, portavoce di quei cambiamenti (culturali e non solo) che sono frutto di un’esigenza reale e profonda. La dicotomia è fortissima: il passato è remoto ma di grande attualità, così come il futuro ipertecnologico.

Un codice islamico
A brancolare nelle contraddizioni è soprattutto il presente, erede di quel fatidico e drammatico 20 novembre 1979 in cui un gruppo di fanatici guidati da Juhayman al-Otaybi attaccò la Grande Moschea della Mecca e la tenne sotto assedio per due settimane. Alle centinaia di morti, tra pellegrini e ribelli, seguì una fortissima repressione che portò all’instaurazione di più rigide norme del codice islamico con, tra le altre cose, la chiusura dei cinema e il rigido dress code per le donne. Proprio sulle origini di quello che fu chiamato «il movimento Juhaymaniya», da molti considerato il precursore di Al-Qaeda, l’artista concettuale Rashed Al Shashai ha realizzato la documentazione fotografica del villaggio di Mondassah, a 35 km dalla Mecca dove il leader estremista aveva fondato il suo movimento, dichiarando mahdi (messia) il cognato Mohammed Abdullah al-Qahtani e pianificando l’attacco nel cuore dell’Islam.

A tutto design
Torniamo al presente di Gedda, porto sul Mar Rosso in cui si respira un’aria più rilassata rispetto a Riad, che si traduce anche in un crescente interesse per l’arte contemporanea. La conferma arriva dal successo del festival 21,39 Jeddah Arts, inaugurato nel 2014 e organizzato dal Saudi Art Council (Sac) con il supporto della principessa Jawaher bint Majed bin Abdulaziz, mecenate-collezionista fondatrice di Al Mansouria Foundation for Culture and Creativity. La kermesse non governativa vede la partecipazione delle gallerie più importanti della città, tra cui Athr gallery, Hafez gallery, Arabian Wings gallery. La 4a edizione dal titolo Safar (fino al 6 maggio) è curata da Sam Bardaouil & Till Fellrath.
Tra le arti visive è certamente il design ad avere maggior popolarità. Oggetto di studio nell’ambito di comunicazione e graphic design presso prestigiosi istituti come il College of Art and Design della Kau-King Abdulaziz University o il Sae Institute, al design è dedicata anche la rivista in arabo (con versione inglese per il web) Design. The designers network, fondata dieci anni fa da Kholoud Attar.
Quanto alle altre discipline, malgrado le contraddizioni c’è la consapevolezza da parte del governo dell’importanza di dare visibilità agli artisti sauditi all’interno dello scenario internazionale, incoraggiandone la partecipazione ad appuntamenti come The Edge of Arabia, la Biennale di Venezia e a fiere (Art Dubai e Start Doha Art Fair).

Sfidando gli stereotipi, benché in Arabia Saudita le discriminazioni di genere siano una realtà di fatto, le artiste sono numerose, tenaci e decisamente interessanti. Un segnale significativo è stata la collettiva Anonymous was a woman (2015) alla Hafez Gallery con la partecipazione di 20 artiste saudite (incluse Maha Malluh che parteciperà alla 57/ma Biennale di Venezia; Manal Al-Dowayan con le emblematiche fotografie della serie Silent Song e l’attrice e filmmaker Ahd Kamel con gli still del film Sanctity, girato proprio a Gedda), tra cui la pioniera Safeya Binzagr (Gedda 1940) e la prima street artist Sarah Mohanna Al Abdali (Gedda, 1989).

Binzagr e Al Abdali sono accomunate dall’esperienza della presa di coscienza del valore del patrimonio culturale della loro terra. In un certo senso, quello di Safeya è uno sguardo di matrice orientalista, direttamente connesso con il suo oriente, ricostruito e immaginato partendo proprio dal quartiere del Balad, dove si trovava il palazzo di famiglia, tra quei vicoli stretti dove i bambini giocavano a campana o con i pezzi di marmo (Al-Lub), oggi abbandonato al silenzio del declino. Nei suoi dipinti di Gedda sparita, realizzati fin dal ’68, la brillantezza del ricordo si carica di coinvolgimento emotivo. La pittrice raffigura luoghi e situazioni attraverso l’uso delle fotografie che è lei stessa a scattare e che associa ad altre che trova nei mercatini delle pulci o consultando l’archivio della Royal Geographic Society di Londra. Darat Safeya Binzagr è il suo museo personale in cui sono esposti costumi, gioielli e suppellettili provenienti dall’Hejaz. Da anni, l’artista sta documentando e catalogando i costumi storici della sua terra, attraverso i suoi disegni. Sarah Mohanna Al Abdali, invece, si trovava a Oxford quando per caso qualche anno fa, visitando l’Ashmolean Museum, il suo sguardo fu attratto da una porta che aveva qualcosa di familiare. La conferma della sua provenienza – Gedda – arrivò leggendo la didascalia. Un incontro/confronto che l’ha portata a lavorare sul tema del pattern, ispirandosi e reinterpretando la forma di quella «soglia».

Nel suo studio, oggi, poggiata a una parete, c’è un pezzo di un’antica finestra di legno con la griglia (roshan) dipinta di verde, proveniente dalla casa del suo bisnonno, anch’essa nel Balad. «L’ho presa mentre stava per essere buttata, spiega Al Abdali. «Sono nostalgica e mi piace collezionare vecchi oggetti dimenticati, pronti per essere gettati via. Hanno una loro storia, magari un giorno entreranno a far parte del mio lavoro».

La Kaaba artistica
La strada ha rappresentato la fase sperimentale del suo lavoro, subito dopo aver studiato design: «Ho iniziato intorno al 2012, facendo con semplici stencil. Il primo lavoro riguardava la crescita veloce delle costruzioni alla Mecca. Era una sorta di segnale stradale, di quelli che ci sono ovunque con la forma della Kaaba, ma nello stencil lo skyline delle costruzioni sovrasta la Kaaba stessa». Dopo il master di due anni in arte islamica a The Prince’s School of Traditional Arts di Londra, il lavoro di Al Abdali ha cambiato direzione: «Non volevo rimanere confinata all’interno della strada e del linguaggio della street art. Ora sono più interessata a ricercare le origini della mia cultura, e i conflitti tra il passato e il presente attraverso la miniatura, la ceramica, l’incisione oltre che la pittura e il disegno».

 

UN’INTERVISTA

DSC_0131 - nello studio di Ahmed Mater, Gedda dic 2016 (ph Manuela De Leonardis)
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Lo studio di Ahmed Mater (Abha, Arabia Saudita, 1979, vive e lavora a Gedda) è un’officina creativa, dove gli amici s’incontrano per confrontarsi su arte e vita, vedere film, ascoltare musica dal vivo. Ossia buona parte di tutto ciò che in Arabia Saudita è vietato fare pubblicamente, almeno finché il programma di sviluppo Arabia Vision 2030 non metta in atto le previste e importanti riforme su educazione, infrastrutture e turismo. L’artista, co-fondatore del collettivo Edge of Arabia, suona l’oud, mentre la batteria con le chitarre e la tastiera sono a disposizione di chiunque abbia voglia di improvvisare una jam session. Non c’è angolo di questo ampio studio che non restituisca l’energia positiva e vitale della partecipazione di gruppo.
Non è casuale, infatti, che in giro – tra il biliardino, la pompa di benzina e il plotter – non si vedano solo opere di Mater, tra cui la celebre Yellow cow cheese (2010): ci sono, ad esempio, i dipinti a olio dell’amico Saeed Gamahwi e anche la foto della bambina (si chiama Fatima e ha il mazzolino di fiori gialli) scattata dal fotografo siriano Osama Esid nella scuola del campo profughi siriani di Adana (Turchia) ed esposta nel 2015 in occasione della sua personale Suleiman’s Tent alla Hafez Gallery di Gedda. Cresciuto in una fattoria a sud del regno, Ahmed Mater a 18 anni (all’epoca aveva appena intrapreso gli studi di medicina) è diventato socio fondatore di Al-Miftaha Arts Village.
Artista multidisciplinare usa calligrafia, pittura, installazione, suono, performance, fotografia e video focalizzando il suo lavoro sempre più sulle storie «non dette» della vita sociopolitica saudita, in cui il processo accelerato di trasformazione ed espansione è fortemente radicato nella tradizione. Il suo successo internazionale è testimoniato dalla presenza nelle collezioni del British Museum e, tra gli altri, The Los Angeles County Museum of Art, Guggenheim Museum e Smithsonian Institute di Washington dove nel 2016, alla Freer/Arthur M. Sackeler Gallery, è stata organizzata la sua prima personale negli Stati Uniti: Symbolic Cities.
Dopo Magnetism I (2008), l’opera che lo ha reso celebre, in cui interpretava l’idea del pellegrinaggio alla Mecca, quinto pilastro dell’Islam, ponendo una calamita squadrata al centro di forze contrastanti rappresentate dalla limatura di ferro, l’artista ha continuato a esplorare il tema dell’Hajj.
Dal 2011 è tornato a fotografare ripetutamente il luogo sacro, lì dove preghiera e spiritualità devono fare i conti con il business e la grande speculazione edilizia che sta cancellando i quartieri più antichi della città, uniformando gli standard in nome di una globalizzazione che punta ad innalzare hotel sempre più lussuosi e anonimi shopping mall dove si riversa la massa, interamente costruiti da lavoratori-schiavi stranieri.
Tra realtà e contraddizioni, Mecca è un luogo che, nelle fotografie di Ahmed Mater, assume anche le fattezze di un paesaggio «alieno» quando – come in Disarm – egli restituisce la sua planimetria attraverso la luce fredda della telecamera di sorveglianza notturna di un elicottero militare.
Sulla parete c’è la foto di «Magnetism» (stampata a getto d’inchiostro e incollata su vetro acrilico) che si è rotta durante un trasporto. Sembra che l’incidente abbia offerto una nuova vita all’opera…
Sì l’opera si è rotta, ma ho deciso comunque di portarla fuori dal suo contesto, sperimentandone una nuova possibilità in cui sono presenti anche i frammenti. L’idea di quest’opera è molto semplice, minimale. Ho usato una calamita circondata da limature di ferro. Rappresenta il luogo più sacro della nostra religione, Mecca. Ma, allo stesso tempo, parla anche di architettura e planimetria dell’insediamento umano. L’idea è quella filosofica della similitudine tra gli esseri umani e Dio.
Quindi, l’imprevisto rientra nel suo concetto di opera?
Nella nostra vita succedono molte cose, la storia stessa è fatta di imprevisti. Fa parte del lavoro dell’artista intuire l’opportunità che gli si presenta e saperla cogliere. L’arte non è solo fare, è anche visione e deve avere influenza sulla vita, sulla cultura, sulla politica.
Visto che ha parlato di politica, qual è la consonanza tra il suo lavoro e la situazione politica nel paese?
Penso che l’arte sia solitamente il mezzo più giusto per riflettere su questioni sociali e politiche. Prima ci sono state molte lotte, ma ora è un periodo di cambiamenti in Arabia Saudita e si respira un’atmosfera più rilassata.
In questo studio ci sono molti strumenti musicali. C’è una possibile relazione tra arte e musica?
La musica fa parte della vita. La nostra religione, qui, cerca di metterla al bando, ma senza la musica l’arte non esiste. Accende tutti i nostri sensi. Sì, è dietro ogni cosa. Racconta la storia stessa della vita.