Un tweet di Dario Franceschini del 2 novembre, ha riportato all’attualità il dibattito sul Colosseo, monumento cult del turismo globale e «icona-pop» della capitale. Il ministro esprimeva compiacimento per un’idea lanciata in luglio sulla rivista Archeo da Daniele Manacorda – docente di Metodologia Archeologica presso Roma Tre – il quale proponeva di ricostruirne l’arena, demolita tra XIX e XX secolo. Sulla scia dell’entusiasmo, il ministro ha accompagnato il post con una foto dell’archivio Alinari, che restituisce una versione «coperta» dei sotterranei.
L’interessante riflessione di Manacorda scaturiva da una campagna pubblicitaria del Ministero del turismo tunisino, che trasforma graficamente l’arena del maestoso «colosseo africano» di El Jem in un campo da golf. Aberrazione o geniale trovata? La fruibilità dei monumenti antichi è oggetto di contrasti tra i difensori dell’ideologia «necrofila», in base alla quale le rovine devono restare «corpi morti» sui quali esercitare il proprio voyeurismo e i sostenitori di un’archeologia «sostenibile» che – con il dovuto rispetto per le metodologie d’indagine scientifica e per i principi del restauro – vorrebbe offrirsi all’abbraccio della contemporaneità.
Rivestire il «Grande Ignudo» è ciò che Manacorda si augura per il Colosseo ma soprattutto per i suoi visitatori, che potrebbero in questo modo beneficiare di una corretta comprensione dell’edificio per spettacoli, esplorandone quegli spazi – originariamente nascosti – in cui si muovevano uomini e belve, godendo altresì di una prospettiva a cielo aperto dall’arena verso le gradinate e viceversa. Al tweet di Franceschini ha ribattuto Giuliano Volpe, Presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici del Mibact, definendo il progetto del ministro innovativo e coraggioso e opponendosi al «feticismo» che porta molti archeologi a non realizzare ricostruzioni e restauri integrativi. Lo stesso Volpe si è rammaricato della bocciatura della proposta da parte di «puristi elitari, vestali della cultura». Benché non si facciano esplicitamente nomi, si può rintracciare tale disapprovazione nelle dichiarazioni dello storico dell’arte Tomaso Montanari – che non esita a giudicare la restituzione dell’arena «banale e banalizzante» – e in quelle dell’archeologo ed ex direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis, per il quale tale disegno non è una «priorità ragionevole». Un dibattito che non tarderà a inasprirsi. Eppure, le disastrose condizioni in cui versa gran parte del patrimonio italiano non dipendono forse dall’assenza di efficaci politiche di valorizzazione? I muri che crollano a Pompei, i siti lasciati all’abbandono nella penisola e sulle isole, un anfiteatro ridotto per decenni a rotatoria per il traffico, sono innegabilmente legati all’insufficienza d’investimenti in questa direzione.
Un’arena calpestabile – dalla quale nelle suggestioni di Manacorda – si potrebbe assistere a un incontro di lotta greco-romana, a una lettura poetica o, come raccomandava a fine ottocento la celebre guida tedesca Baedecker, a una notte di luna – favorirebbe ciò che più manca all’archeologia italiana: l’opportunità di vivere un luogo antico come appartenente alla quotidianità di ognuno, un monumento che possa essere ammirato non solo da una sosta al semaforo, ma anche con la libertà dei propri passi, quelli che ci pongono in una relazione concreta, oltre che onirica, con l’eredità del passato.