Il 10 novembre del 1993 la storia dei videogiochi è cambiata. Alla mezzanotte di quel giorno sui server FTP dell’Università di Wisconsin-Madison diventa liberamente scaricabile il primo episodio – Knee-Deep in the Dead – di DOOM e dopo pochi minuti il server va in crash per eccesso di accessi. Pochi altri episodi nella storia del medium possiedono altrettanta importanza. DOOM, gioco d’esordio della piccola società di sviluppatori id Software con sede a Mesquite (Texas), ha almeno quattro elementi che lo rendono un’imprescindibile pietra miliare.

Intanto, benché l’utilizzo della modalità commerciale dello shareware (ti regalo un pezzo significativo del gioco, e se ti piace tu lo compri) non fosse una novità assoluta, è il successo del gioco della id a dimostrare come essa sia economicamente percorribile anche a livello industriale.
Secondo elemento significativo la decisione di lasciare il codice aperto alle possibili modificazioni da parte degli appassionati. Subito programmatori misero a disposizione gratuitamente editor che permettevano di modificare (e creare quelle che in gergo geek sono le «mod») i livelli utilizzando un approccio «a oggetti» piuttosto che costringere a scrivere linee di codice.

Grazie a questi strumenti alcuni appassionati crearono «mod» rimaste nella storia del videogame, come Aliens-TC che Justin Fisher realizzò nel 1994 rimodellando col motore grafico di DOOM l’episodio cinematografico cameroniano.
Terzo elemento la possibilità di giocare in frenetiche sessioni multiplayer, ponendo le basi per il cyber-sport.

Ultimo elemento lo sfruttare un motore grafico che simula la tridimensionalità per immergere il giocatore in prima persona all’interno del gioco senza nessuna apparente interfaccia a fare da schermo. Per quanto ci siano predecessori come Wolfenstein 3D della stessa id, DOOM riesce a diventare predecessore per uno dei più fortunati generi della successiva storia videoludica: i first person shooter. A differenza però della maggior parte dei titoli di questo genere, comprese le fortunate serie ad ambientazione realistica Medal of Honor e Call of Duty, analizzare DOOM significa constatare che il motivo del suo appeal non sta solo nella prospettiva in prima persona, nell’ambientazione a metà tra fantascienza ed horror con demoni sempre più inquietanti, grandi e letali, nella mancanza di una trama a fare da ingombro al gameplay. Parte essenziale del fascino di DOOM è che il suo gameplay è un puzzle da risolvere per riuscire a evitare e/o eliminare demoni che ci surclassano sempre per numero e spesso per potenza di fuoco in ambienti volutamente labirintici.

Nel nuovo DOOM vengono spettacolarmente ripresi tre degli elementi che hanno fatto grande il primo titolo della serie. Il nostro essere, un soldato mandato su Marte a sventare i piani di una società che vuole produrre energia sfruttando le dimensioni infernali aprendo però squarci attraverso i quali i demoni possono entrare nel nostro mondo, è parte di una trama che rispetta il mantra carmackiano secondo cui nei videogiochi come nei film porno «ti aspetti che ci sia ma non è così importante».
Al contrario ritorna l’elaborazione di ambienti strutturati come arene che devono essere «risolte» per poter fronteggiare ondate di demoni sempre più potenti. Per questo l’utilizzo di salvataggi automatici introduce la necessità di non limitarsi a sopraffare un singolo nemico alla volta per poi salvare ma accettare il fatto di dover morire più volte per studiare i pattern di attacco dei demoni, che non si limitano a buttarsi addosso al giocatore, ma che lo aspettano tendendogli degli agguati e bombardandolo da lontano, mentre mandano avanti i mostri più grossi e più difficili da sconfiggere in scontri diretti.

Negli ambienti del nuovo DOOM non ci sono luoghi che ci mettano al riparo dall’attacco furioso dei demoni e fermandoci ad aspettarli non riusciremo a mappare tatticamente il terreno dello scontro.
La disponibilità ovvia – oggi – di arene per il multiplayer è interessante non tanto per le meccaniche in sé che ricalcano quelle già in voga, ma piuttosto per l’ottimizzazione eccellente che consente anche a chi non abbia a disposizione connessioni ultraveloci di giocare più che decentemente.
Piuttosto da segnalare la messa a disposizione della modalità SnapMap: un editor per creare mappe personalizzate (con tanto di tutorial) per usarle offline e offrirle online alla valutazione della comunità dei giocatori.

Non si tratta di un semplice bonus quanto piuttosto di una parte importante del gioco, del tutto ignorata da titoli simili.
Intanto imparando a ragionare su come creare aree di gioco interessanti – impegnative ma non impossibili – disponendo intelligentemente armi e nemici con comportamenti differenziati, si può imparare a valutare – ed a superare anche con difficoltà avanzate – i livelli proposti in single player.

Ma diventa anche estremamente interessante sfidare amici più o meno virtuali a realizzare mappe più impegnative e divertenti riproponendo ai giocatori odierni quel ruolo attivo che aveva tanto appassionato i giocatori degli anni ’90 e che oggi fa la fortuna di giochi «sandbox» come The Sims o Minecraft.