Un filo rosso percorre la lunga storia del pellegrinaggio cristiano: il desiderio di mettersi in viaggio per raggiungere un luogo sacro, un luogo speciale dove è possibile incontrare Dio o almeno vedere e toccare una sua manifestazione. Ma il filo rosso è soprattutto ideale. Calata nel tempo e nello spazio, questa esigenza ha assunto forme diverse, intrecciandosi a mille altre storie. La storia ad esempio di Hereberehct, Herraed, Wigfus e Leofwini, quattro pellegrini anglosassoni che tra VII e VIII secolo incisero in caratteri runici il loro nome sui muri del santuario di Monte Sant’Angelo, sul Gargano. Oppure la storia del frate francescano che alla metà del Duecento, visitando la corte mongola, incontrò un monaco nestoriano in partenza per Santiago de Compostela. Accanto a queste figure, di cui sappiamo poco o niente, ci sono quelle di pellegrine e pellegrini illustri come l’imperatrice Elena, madre di Costantino, che visitò Gerusalemme forse tra il 326 e il 328; Brigida di Svezia, poi canonizzata come santa, che raggiunse Roma per il Giubileo del 1350 (cui assistette anche Francesco Petrarca); il re di Francia Luigi XI, che tra 1461 e 1483 compì 63 pellegrinaggi all’interno del suo regno. Una media di circa tre all’anno, superata dal ‘papa pellegrino’ Giovanni Paolo II, che nel suo quasi trentennale pontificato distribuì 104 viaggi apostolici in 129 nazioni diverse.

Per comprendere queste e altre esperienze, individuali o collettive, è necessario inserirle in un quadro storico più ampio, sensibile tanto agli elementi di continuità quanto ai mutamenti. È questo che fa, in modo chiaro ed efficace, il recente libro di Paolo Cozzo In cammino Una storia del pellegrinaggio cristiano (Carocci editore «Quality Paperbacks», pp. 288, € 21,00). La storia comincia con i primi secoli del cristianesimo, quando il pellegrinaggio era un’esperienza marginale, non rientrando del resto tra i precetti imposti ai fedeli (una differenza importante rispetto tanto all’ebraismo quanto all’Islam). Fu l’affermazione del culto dei santi e dei martiri, mediatori con il divino, a vincolare l’esperienza del sacro a un ambiente preciso. Il rapporto fra l’oggetto sacro (i resti o reliquie del santo) e lo spazio fisico (la tomba) indusse molti fedeli alla ricerca di luoghi specifici, in cui la presenza del sacro era percepibile. A partire dal IV secolo, i cristiani cominciarono così a visitare i luoghi della vita, morte e resurrezione di Gesù: la Terra Santa per eccellenza, dove Dio stesso si era incarnato.

Nel VII secolo Gerusalemme fu conquistata dai musulmani. L’afflusso di pellegrini cristiani non si arrestò, ma conobbe alti e bassi non sempre facili da misurare né da interpretare. Certo è che alla fine dell’XI secolo si mossero verso oriente schiere di pellegrini armati, in seguito chiamati crociati, che riconquistarono Gerusalemme e crearono una serie di effimeri principati latini. Pellegrinaggi e guerre sante allo stesso tempo, le crociate sono uno degli esempi più lampanti della molteplicità di cause che potevano spingere i pellegrini a mettersi in viaggio, e delle non meno rilevanti conseguenze che viaggi del genere portavano con sé. Mentre apriva all’espansione mercantile europea le rotte del Mediterraneo orientale, il bando della crociata da parte dei pontefici da un lato rafforzava la centralità del papato nel mondo cristiano occidentale, dall’altro indirizzava verso un obiettivo esterno alla cristianità energie, conflitti e inquietudini di una società in fermento e in crescita demografica.

Ma nei due secoli che videro migliaia di pellegrini in armi partire per la Terra Santa, Gerusalemme era solo uno tra gli altri itinera maiora, il più orientale lungo un asse che verso occidente arrivava fino all’Atlantico, a Santiago de Compostela (le cui origini risalgono al IX secolo), e che identificava ormai il suo centro geografico e simbolico con Roma. Corroborato con le crociate, il primato del vescovo di Roma trovò un ulteriore elemento di affermazione proprio quando i progetti crociati divennero irrealizzabili. Nel 1291 cadde l’ultimo baluardo cristiano in Terra Santa, San Giovanni d’Acri; nel 1300 Bonifacio VIII proclamò il primo anno santo, il Giubileo.

Il pellegrinaggio giubilare si radicò e intensificò sul finire del medioevo e nella prima età moderna, quando divenne uno dei bersagli principali della polemica riformata. La nozione stessa di indulgenza, su cui il giubileo si fondava, era per Lutero la massima espressione dell’aberrazione romana rispetto all’originario messaggio cristiano.

In seguito alla Riforma, il pellegrinaggio si trasformò così da «fattore di coesione» in «marcatore di appartenenza», ovvero in indicatore di fedeltà o di ostilità alla Chiesa di Roma. Questa carica identitaria si accentuò nel corso del Settecento e ancor più dopo la Rivoluzione francese, in un mondo cattolico che, sentendosi sotto assedio, vedeva santuari e pellegrinaggi come argini potenti all’avanzare della modernità. Da Rue du Bac (1830) a Medjugorje (1981), passando per La Salette (1846), Lourdes (1858) e Fatima (1917), il pellegrinaggio si trasformò in uno dei principali strumenti di mobilitazione delle masse cattoliche.

L’uso intenso della stampa periodica, la diffusione delle ferrovie e i gruppi organizzati dalle diocesi e dall’associazionismo cattolico fecero la loro parte. Ma tra Otto e Novecento il pellegrinaggio subì anche altre e meno evidenti metamorfosi, su cui Cozzo insiste giustamente. Penso al peculiare rapporto degli emigrati con i santuari del loro territorio: la Madonna di Pompei per i campani, la Vergine di Guadalupe per i messicani… Da un lato, attraverso le immagini sacre, si cercava in qualche modo di portare con sé il paese d’origine; dall’altro, molti cercavano di tornare in occasione della festa del santuario, facendo coincidere il pellegrinaggio con il ritorno in patria.

L’idea di guerra santa e l’affermazione del papato di Roma, l’identità nazionale e le migrazioni: nei secoli la storia del pellegrinaggio cristiano si è intrecciata di volta in volta ad altri fattori che hanno contribuito a creare il mondo in cui viviamo. Oggi questa storia è tutt’altro che finita. Secondo la United Nations World Tourism Organization (UNWTO), i luoghi di culto attirano ogni anno circa 330 milioni di visitatori. Il libro di Cozzo mostra che questo dato è da prendere con cautela, perché il pellegrino è spesso difficilmente distinguibile dal turista. Come il turismo, del resto, anche il pellegrinaggio prima di diventare un fenomeno di massa era stato un’esperienza riservata a uomini e donne di classe sociale e di cultura elevate. E se dal 2007 Airbnb ha rivoluzionato il settore alberghiero, già nel medioevo proliferavano per i pellegrini forme di ospitalità occasionale, gestita privatamente. Per il Giubileo del 1450 a Roma, secondo un cronista coevo, «ogni casa era albergo e non bastava»; gli ‘osti’ improvvisati ricevevano in genere recensioni negative, ma anche i forestieri, stando a un’altra fonte, si segnalavano per comportamenti poco edificanti («se pisciano per le camere, se imbrattano di sterco i lenzuoli, se straccian le coperte, se scrivon per le mura col carbone l’ignominie dell’hosto e dell’hosta»…).

La commistione del pellegrinaggio con il turismo, o con il viaggio di lavoro, non è dunque una novità assoluta. Era infatti anche per ‘lavoro’ – per ricevere l’investitura dal papa Giovanni XV – che l’arcivescovo di Canterbury Sigerico, nel 990, raggiunse Roma. Dopo ottanta giorni di cammino si fermò nella città santa appena due giorni, ma li sfruttò a fondo per pregare in ben 23 chiese diverse. E negli anni venti del Duecento Jacques de Vitry polemizzava contro quei turisti mascherati avant la lettre, che andavano in pellegrinaggio «non per devozione, ma per mera curiosità e amore delle novità», desiderosi semplicemente di «viaggiare verso terre sconosciute».