È la seconda volta che una mostra di Renzo Piano occupa uno spazio gotico qual è quello della Palazzo della Ragione di Padova (visitabile fino al 15 luglio). La prima fu nel 1986, all’interno del salone della Basilica Palladiana di Vicenza che l’architetto genovese immaginava di lì a poco di riqualificare: operazione che poi fu abbandonata per le critiche che sollevò il suo progetto; in particolare, quelle persuadenti di Manfredo Tafuri e di Renato Cevese.

È così che nel girare tra i trentadue tavoli che compongono l’allestimento dell’esposizione patavina promossa dalla Fondazione Barbara Capocchin – ognuno dei quali descrive un’architettura realizzata – non si può evitare di riannodare a quegli anni il filo della memoria e, con amarezza, constatare non tanto che la presenza di Piano nel Veneto è data dalla sola copertura degli uffici Lowara a Montecchio Maggiore, ma che la sua lezione di pensare un’architettura discreta e rispettosa nei confronti di un paesaggio fatto di terra e acqua è stata qui trascurata oppure – ed è peggio – falsata nella retorica di qualche suo epigono: l’assurdo progetto Veneto City docet.

Tuttavia, nel giro di alcuni decenni, siamo passati dalla «diversità o marginalità» dell’architetto genovese – che Aldo Castellano bene evidenziava in occasione della mostra vicentina – al suo unanime apprezzamento qualunque sia l’architettura concepita dalla Renzo Piano Building Workshop. Se ancora negli anni ’80 ci s’interrogava se «la sua fosse architettura oppure semplice costruzione», adesso le sue soluzioni sono accolte da generali consensi, pronte spesso a soddisfare le emergenze della nostra pubblica amministrazione: ieri un ospedale, oggi una scuola, domani, chissà, un carcere. Qui non è ovviamente in discussione il talento di Piano, la qualità della sua ricerca, ma l’inettitudine di chi ieri, avendo l’autorità politica, non ha colto il valore di una personalità che avrebbe inciso forse diversamente, se fornita di un programma chiaro e non speculativo, sul destino delle nostre città.

Rifiuti e ritorni

Ora, in ritardo sulle trasformazioni urbane in direzione degli interessi della gente, tutto si svolge nell’accettazione acritica e guai a mettere in dubbio soluzioni come ad esempio quella per il recupero delle aree industriali di Sesto San Giovanni, dove si è deciso il trasferimento di due ospedali milanesi in un nuovo insediamento ospedaliero – la Città della Salute – per garantire dai rischi finanziari più di tre milioni di metri cubi di edificazioni. Tutto ciò la mostra non lo racconta, ma ciò che è importante è evidenziare che spesso Piano, soprattutto nel nostro paese, interviene lì dove l’urbanistica è stata esautorata. Passiamo però, a un altro aspetto dell’esposizione. Bruno Zevi, in uno dei suoi editoriali su L’Architettura-cronache e storia, rilevava che se «Renzo Piano è uno dei migliori architetti italiani, e forse l’unico capace di esercitare la professione a scala internazionale» il motivo stava nel non essere un professore universitario «invischiato nella burocrazia dei concorsi a cattedra». Un giudizio deciso ma che collima con una seconda riflessione che la mostra pone: quella che investe il ruolo della critica con le sue idiosincrasie.

Lo spunto lo dà il catalogo (Electa) che contiene un solo contributo, quello di Francesco Dal Co, tanto da presentarsi come una sua monografia, la prima dedicata all’architetto genovese. Mostra e monografia hanno, però, una loro diversa finalità. Mentre l’esposizione, com’è prassi per Piano, è un work in progress che continuerà nei prossimi anni ad arricchirsi di nuovi «tavoli», il volume di Dal Co fissa una rigida questione di metodo: il «giudizio estetico e il gusto» dello storico non devono avere alcun ruolo nella scelta delle opere; ciò che è importante è fornire al lettore – anche grazie a un progetto grafico coerente (Tassinari/Vetta) – la possibilità di «esaminare con agio» schizzi, disegni e fotografie. Infatti, per Dal Co «un’opera di architettura si arrende solo a chi la guarda con l’intenzione di farla parlare direttamente». Non è però così semplice separarsi dal «giudizio estetico». Ha ragione Giorgio Agamben che l’esercizio della «facoltà del gusto» è proprio quella di «un partner sempre meno necessario e sempre più passivo» rispetto al «lavoro dell’artista». Differente è la posizione di chi è «scomodo e maldestro» e pronto ad assumersi la responsabilità delle sue opinioni.

È quest’ultima proprio la parte che ebbe Tafuri polemicamente a Vicenza, il quale non volle certo passare per lo «spettro evanescente» di uno spettatore: rifiutò di essere lui sì «un uomo di gusto» perché intervenne e ostacolò l’artista – ovvero l’architetto – durante lo svolgimento della sua opera. Piano conosce bene lo «spettatore moderno» personificato nel critico e ne potrebbe fare anche a meno fornendogli già confezionato – come già avviene con le monografie edite dalla sua Fondazione – il materiale che gli occorre. Tra i diversi temi che questo rappresenta uno in particolare ci interessa ed è quello dell’importanza che la città assume nella sua intera ricerca progettuale e che lui stesso chiarifica in catalogo nella conversazione con Anna Foppiano. La centralità metropolitana è il fil rouge che collega, con poche eccezioni, le sue architetture. Si va dal Laboratorio itinerante di Otranto, «esperienza fondativa» sulla fragilità dei centri storici, al recupero del Porto Antico di Genova, dove si consolida nella sua forma più compiuta, la sua idea moderna di rigenerazione urbana, fino al masterplan del quartiere Le Albere di Trento con il Museo delle Scienze (MuSe), esempio di riuso, come accade a Sesto Milano, di aree industriali dismesse.

Sinfonie di forme

Anche il Centro Culturale Georges Pompidou a Parigi, l’architettura che rese Piano con Richard Rogers e Peter Rice famosi nel mondo, e la recente London Shard, si misurano con il tema della metropoli quanto la berlinese Postdamer Platz.

A guardar bene ogni edificio pensato per la musica, la cultura e l’arte – tutti temi che compongono le sezioni espositive – possono essere intesi quali «pezzi» che sostituiscono, aggiungono o configurano nuovi spazi nella realtà urbana. È, forse, anche questo il significato del titolo Pezzo per Pezzo scelto per la mostra, oltre a quello più scontato e amato da Piano che rimanda all’«architetto-costruttore» nella sua nobile accezione di chi fabbrica in modo artigianale le cose e congegna con abilità gli strumenti più idonei per realizzarle. Da questo punto di vista l’attenzione del visitatore è catturata dalla ricca presenza dei moltissimi materiali disposti sui tavoli – disegni, filmati su tablet, plastici e componenti di edilizia «al vero» – che raccontano con scrupolo pedagogico ogni progetto rendendoci così anche noi partecipi del processo creativo che lo ha determinato. Sono lì a disposizione di tutti le soluzioni che hanno permesso di coprire una grande sala o di migliorare il confort di un edificio, di avere la luce più adatta per ammirare una scultura o il suono migliore per ascoltare una sinfonia.

Per Piano l’architettura è innanzitutto «un servizio, nel senso più letterale del termine, è un’arte che produce cose che servono». Infatti, non c’è edificio dell’architetto genovese che non assolva le sue funzioni, mentre più impegnativo è affermare che questi hanno «mantenuto l’identità dei luoghi e delle cose». Piano, è noto, inizia il confronto con i temi complessi della città contemporanea durante gli anni ’70.

Nel frattempo, ha messo a punto gli elementi di linguaggio originati dalla sperimentazione sui materiali e dalla tecnologia – in particolare dei grandi spazi coperti come gli Uffici B&B a Novedrate – sulla base della lezione di Jean Prouvé, Frei Otto e Buckminster Fuller. In quel decennio egli è consapevole, come lo è su un altro piano Henri Lefebvre, «che la città che avevamo conosciuto stava rapidamente scomparendo e che non poteva essere costituita» (Harvey). Con la trasformazione radicale del Plateau Beaubourg, nel quale spicca il «pezzo unico» del suo Centro Culturale, Piano dimostra di essere il migliore arbitro per il capitale pubblico e privato. L’immagine di città che l’architetto genovese presenta al mercato che «globalizza e urbanizza» è quella pacificata da conflitti, dove l’eterotopia, la varietà spazio-temporale, è bandita perché conciliata all’interno di luoghi controllati in ogni minimo dettaglio.

Grattacieli appuntiti

È sufficiente visitare la Cité Internazionale di Lione (non in mostra) o a Londra il complesso edilizio di Saint Giles Court per rilevare che sono sempre soddisfatte, dall’unicità dell’oggetto architettonico e da un’organizzazione disciplinata, le esigenze del committente. A Berlino la Potsdamer Platz di Piano ha eclissato la «ricostruzione critica» della città fridericiana ancora immaginata negli anni ’80 dall’Iba (Internationale Bauausstellung) e dettata da linee di gronda, allineamenti, piazze, strade e isolati.

Da allora è trascorso molto tempo ed è diventata egemone la light modernity di Piano nella quale è una questione aperta come in futuro si rispecchieranno i desideri e i bisogni della gente. Nel concludere la nostra visita l’ultimo sguardo va al modello aguzzo del suo grattacielo londinese e ci tornano in mente, tra le molte suggestioni che evoca, le parole del critico inglese Hal Foster: «Se la Shard è il simbolo di qualcosa è il simbolo del capitalismo finanziario».