Si potrebbe dire che la critica moderna è in crisi fin dal suo etimo; si potrebbe dire che la critica incarna lo spirito della modernità, l’epoca che si conquista il diritto di rifiutare l’autorità e di giudicare i valori tramandati – ma sarebbe un modo per non cogliere il punto. Per due secoli il nesso tra critica e crisi è rimasto una discussione da circolo colto e non ha in alcun modo scalfito il ruolo di chi scriveva di letteratura o la insegnava; da qualche decennio la crisi è così profonda che il dibattito critico più importante dell’ultimo quarto di secolo ha avuto, come tema, la crisi della critica.

La discussione ha coinvolto quattro o cinque generazioni di intellettuali, da Harold Bloom a persone che oggi hanno fra i trenta e i quarant’anni, e si è diffusa in tutti i paesi occidentali in forme sempre più scettiche, stanche e disilluse. Se il compito della filosofia, diceva Wittgenstein, è indicare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia, in questo caso la mosca ha già fatto il giro della bottiglia e ha capito che non c’è una via d’uscita. Nel frattempo la crisi si è aggravata. Eviterò di sbattere un’altra volta contro il vetro e mi concentrerò su ciò che sta al di fuori. Il destino della critica non è interessante in sé; è interessante come metonimia di ciò che accade alla cultura in una società che per la prima volta è veramente diventata di massa.

C’è da dire che questo dibattito non circola da solo. Fa parte di un insieme di riflessioni che hanno come tema un gruppo di crisi correlate: la crisi della scuola, dell’università, dell’editoria di qualità, della letteratura di ricerca e, nella letteratura di ricerca, della poesia. Sono sintomi; dicono che la cultura umanistica tradizionale si trova spiazzata dai cambiamenti che la società ha subito, con cronologie diverse a seconda delle storie nazionali, negli ultimi quattro o cinque decenni. In Italia lo stato delle cose cambia fra la seconda metà degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, fra la fine del lungo Sessantotto, la ristrutturazione capitalistica dell’editoria e la nascita della televisione privata, quando si chiude il Novecento e comincia un’altra epoca. Internet, i social network e le riforme scolastiche endemiche degli ultimi anni aggiungono altri pezzi a un processo che stava già avendo luogo.

Dopo la fine del notabilato
Il primo elemento della metamorfosi è la scolarizzazione di massa. Nel 1961 circa il 15% delle donne e il 25% degli uomini accedeva all’istruzione superiore dopo le scuole medie; oggi la percentuale per entrambi i sessi è sopra il 90%. Il volume dei libri posseduti e letti è andato aumentando parallelamente alla crescita della scolarità. È la più grande conquista delle socialdemocrazie e delle cristiano-democrazie postbelliche insieme col sistema sanitario nazionale. Benché incompiuta (il tasso di abbandono alla scuola secondaria resta alto, il numero di laureati rimane basso, meno della metà degli italiani legge un libro all’anno), è comunque una trasformazione democratica profondissima, l’equivalente, nell’ambito della cultura, della nascita del ceto medio. Ma questo risultato prodigioso, grazie al quale quelli come me hanno avuto accesso all’università, cambia i presupposti del sistema e mostra retrospettivamente quello che tutti sanno e che molti dimenticano: che a lungo la cultura è stata l’espressione di un notabilato, che le sue opere e le sue istituzioni erano figlie di un sistema chiuso, nato su un privilegio oggettivo e popolato da persone che, se viste da lontano, condividevano quasi tutto.

uando il sistema si allarga, quando il pubblico della letteratura diventa più ampio, disgregato e diseguale, è inevitabile che le autorità di un tempo vacillino.
Il secondo elemento è ciò che Michel de Certeau, parlando delle assemblee del Sessantotto, ha chiamato la presa di parola. Tre o quattro decenni più tardi, in un contesto diverso da quello cui pensava De Certeau, internet e i social network hanno portato alle masse un diritto che la cultura precedente riservava a un’élite di persone addestrate a questo scopo: il diritto di esprimersi in forma pubblica, di far circolare le proprie idee, di essere autore.

La fase eroica dei siti culturali a metà degli anni zero ha rappresentato un passaggio decisivo e uno choc; qualche anno dopo i social network hanno amplificato questo processo. La presa di parola generalizzata distrugge le mediazioni, sgretola l’autorità di ogni discorso specialistico, la diluisce nell’opinione. La letteratura e la critica ne escono stravolte; prima ancora ne è uscita stravolta la politica.

L’ethos del qui e ora
Il terzo elemento è la nascita di una nuova cultura umanistica, diversa da quella che si impara a scuola, ma che per molti aspetti esercita la stessa funzione della prima. Le generazioni diventate adulte dagli anni Sessanta in poi sono nate in una sorta di bilinguismo: prima di incontrare la cultura tradizionale sono cresciute incontrando la cultura dei media, quel sistema di autori, opere, generi nato dalla comunicazione di massa fatto di cinema commerciale, televisione, fumetti, musica, giornali, moda, pubblicità, e poi videogiochi, internet, social network, che si è progressivamente sovrapposto alla cultura ufficiale, e ha trovato una forma di consacrazione.
Oltre che mescolanze, il rapporto fra queste due culture produce conflitti. Uno riguarda la gerarchia fra i linguaggi (nel sistema dei media la letteratura è un’arte secondaria); un altro è legato al rapporto con le opere. La cultura pop si fonda sul consumo come forma di esperienza, sull’intrattenimento, sulla convinzione implicita che un’opera valga per il proprio effetto immediato, che non occorrano canoni, studio, scuole, e che non sia necessario discutere pubblicamente di gusti o di valori. Ognuno ha i suoi e li asseconda in nicchie separate; la somma complessiva la crea il mercato.

Oggi la cultura dei media è l’unica che interessi davvero all’opinione pubblica e che abbia un peso politico reale. La morte dei cantanti è un evento collettivo, la denuncia di un’attrice di Hollywood può scatenare un movimento, un discorso di Oprah Winfrey ai Golden Globe può trasformare un personaggio televisivo in una potenziale candidata alla presidenza degli Stati Uniti, mentre la vita e le opinioni degli intellettuali tradizionali contano solo nelle nicchie scolastiche, nelle presentazioni davanti a venticinque lettori, negli inserti culturali.
Il quarto elemento è l’ethos culturale del nostro tempo, quell’individualismo e quel particolarismo radicali che assumono come alfa e omega dei propri discorsi la prima persona singolare o un noi neotribale. Se i loro presupposti sono più che sensati (decostruire la falsa universalità dei canoni dominanti, mostrare che le differenze esistono, che vogliono esprimersi, e che nulla le tiene insieme se non i rapporti di forza), il loro effetto è il delirio della particolarità, la balcanizzazione.

Chi ha passato qualche mese negli Stati Uniti si è trovato davanti alla galassia esplosa dei cultural studies e della theory. Dall’altra parte del campo critico troviamo una struttura di senso opposta che si richiama al mito moderno della scienza come unica forma di sapere oggettivo. Per la critica letteraria la scienza coincide di solito con la storia erudita e con la filologia – i beni-rifugio cui si ricorre in mezzo alla crisi, facendo appello a un senso comune positivistico che nasce dall’equiparazione delle scienze dello spirito alle scienze della natura; un senso comune refrattario alla riflessione e convinto di basti studiare oggettivamente qualcosa, magari qualcosa di marginale o irrilevante, per fare un gesto sensato, come se quello che è stato detto negli ultimi centocinquant’anni sulla natura circolare dell’interpretazione e sull’utilità e il danno della storia per la vita non fosse mai esistito. Questo paradigma rimane egemone nell’università italiana. Oggi, chi non aderisce agli opposti estremismi dell’oggettività tardopositivistica o del soggettivismo esploso ha l’impressione di navigare contro due correnti speculari dello stesso Zeitgeist.

Uno conta uno?
Vista da fuori, la bottiglia dentro la quale si agita la mosca può essere letta come un’allegoria di quella crisi dei corpi intermedi che è un tratto fondamentale del nostro tempo e di quella tendenziale parità fra tutti i modi di sentire (la formula è di Martin Amis) che si afferma quando non c’è dibattito, e l’unico principio preso per buono è che uno conta uno. Oggi, in Europa, sono soprattutto le istituzioni dello Stato a stabilire che gli intellettuali tradizionali debbano ancora avere un ruolo nella formazione dei cittadini e della memoria condivisa, e che il loro giudizio non sia un’opinione come tante. Se un giorno queste istituzioni cambiassero politica, tutto sarebbe molto diverso. A quel punto ognuno rimarrebbe nella propria bolla e i conflitti fra le bolle sarebbero risolti dalla legge del numero, che è il nomos del mercato, ma anche della democrazia liberale o di YouTube.