Una stanza nella stanza: il ritmo narrativo è incalzante, saturo di immagini che rimandano ad altre immagini. Non c’è un punto di partenza, né uno d’arrivo. Le foto di Roger Ballen (New York 1950, vive dal 1981 a Johannesburg, Sudafrica) graffianti – puntualmente definite surreali e inquietanti – sono uno specchio per l’autore, ma anche per chiunque altro ci si imbatta con lo sguardo.
Protagonista nel 2006 di FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma con Shadow Chambers (1994-2004), Ballen torna nella capitale, in occasione della XIII edizione della rassegna dedicata al tema del ritratto (al Macro fino all’11 gennaio 2015), per presentare per la prima volta in Italia la mostra Asylum of the Birds (a cura di Marco Delogu in collaborazione con la galleria Massimo Minini di Brescia).
Il fotografo si esprime attraverso il linguaggio del bianco e nero, il mezzo più adatto per accompagnare quello che è prima di tutto un «viaggio psicologico ed esistenziale». Fotografa su pellicola tornando – settimana dopo settimana, anno dopo anno – in una casa alla periferia di Johannesburg dove vive un gruppo di persone emarginate.
Asylum of the birds
è un luogo reale, anonimo, perso in una dimensione tutta sua, in cui gli uomini convivono con gli animali e indossano maschere, come nell’ultimo e controverso progetto di Diane Arbus.

«Asylum of the birds» è anche il titolo del suo ultimo libro, pubblicato nel 2014. Un lavoro che lo ha impegnato negli ultimi sei anni. Nel film documentario di Ben Jay Crossman spiega sinteticamente l’iter, partendo dalla considerazione di essere affascinato dagli uccelli in quanto collegamento tra paradiso e terra e arrivando all’interpretazione della fotografia come codificazione di archetipi collegati al subconscio: fantasie, sogni, incubi, paure. Proiettare nel lavoro il suo mondo interiore diventa anche un’opportunità di catarsi.

Scattare foto non è solo catartico, è dare un senso a se stessi. Mettere insieme i pezzi. Quando il puzzle sarà finito, e sono certo che non succederà, sarà ora di smettere di fare fotografie. Il principale scopo del mio lavoro è sempre stato psicologico-esistenziale. Non sono un reporter sociale, di cultura o politico. Mi occupo della psiche e della condizione umana. Questo è stato sempre il punto cardine del mio lavoro.

Il  film si conclude con l’affermazione che la luce arriva dall’oscurità. Esplorare il lato oscuro dell’umanità vuol dire anche produrre immagini forti che possono essere fastidiose e disturbanti. La metafora – associata all’utilizzo del bianco e nero – è l’elemento di raccordo tra realtà e immaginazione, in che modo si coniuga con il lato estetico?

Principalmente ciò che disturba nelle mie foto – trovo interessante il verbo disturbare – ha a che fare con le paure delle persone. La parte oscura è quella che l’essere umano reprime; la vive come un fastidio e tende ad evitarla. Ma anche se cerchiamo di scartarle, quelle paure sono sempre lì. E più proviamo a scacciarle, più tornano a galla minacciosamente, ad esempio nei sogni.
Le immagini non devono essere viste come qualcosa di esterno, ma come qualcosa con cui confrontarsi, mettendosi in relazione con quegli elementi del proprio essere. Facendo così si comincia a vedere la luce.
Il problema se sia realtà o no, se si tratti nel mio lavoro di fatti o fantasia – e forse nella realtà stessa – è molto elusivo e ambiguo. Se ci si mette a pensare profondamente a tutta la propria vita, dopo un po’ tutto sembra tutto piuttosto sfocato. Non si capisce più cosa sia la realtà e cosa non lo sia. È tutto molto vago e non così oggettivo come si potrebbe pensare. Per esempio, in una conversazione come quella che stiamo facendo, c’è qualcosa che mi dice cosa fare. Chi sta conducendo il dialogo, chi mi consiglia le parole che mi escono dalla bocca? Chi è? Il sé che sta dietro a noi stessi, che è lo stesso che cerco di scoprire. Chi è il sé…? È qualcosa che è composto da diversi livelli. Si arriva ad un primo livello e si scopre che ce n’è un altro e non si giunge mai in fondo.
Ad ogni modo, per tornare alla domanda, per me la fotografia è un processo di metamorfosi. Quello che si vede sulla pellicola e nella fotografia è l’estetica di Roger Ballen trasformata attraverso l’immagine fotografica.
Se si va in un luogo e lo si prova a fotografare è realtà trasformata e la questione fondamentale è se la realtà non è altro che un’altra realtà. Quello che si vede è un’estetica. Più vado avanti con la fotografia, più il pubblico riconosce, identifica l’estetica. Così l’estetica diventa Roger Ballen e Roger Ballen diventa la realtà delle fotografie.

È cresciuto a New York in un ambiente in cui la fotografia era un’arte, ma anche un business. Sua madre lavorava per la Magnum e poi aprì una sua galleria fotografica. Tra i suoi mentori ha più volte citato Elliott Erwitt, Henri Cartier-Bresson, Paul Strand, André Kertész… Qual è stato l’incontro più significativo?

Ho sempre sostenuto che ci sono quattro o cinque persone molto importanti per la mia fotografia. Cartier-Bresson mi ha parlato del «momento decisivo». Qualcuno ha detto che per essere un grande fotografo bisogna essere consapevoli del momento decisivo. È difficile sfuggire a questo concetto. Anche quando inquadri un paesaggio o una natura morta, le persone che guarderanno l’immagine penseranno a quell’istante come a un momento speciale, irripetibile. Tendono a riconoscerlo quando ricordano la foto.
Questo l’ho imparato da Cartier-Bresson. Anche Elliott Erwitt è stata una figura importate nella mia vita. Ha portato molto humor nelle mie foto, anche se nel mio lavoro coltivo l’assurdo. Il mio è un livello psicologico più profondo, riguarda la condizione umana. Qualcosa del genere si può trovare in Kertész che è stato, forse, il più importante perché attraverso di lui ho capito che la fotografia poteva essere una forma d’arte. Mia madre è stata la prima a vendere il suo lavoro in America. Ha aperto una galleria con lui e pochi altri. Poi ci sono Paul Strand e Walker Evans che mi hanno raccontato molto sulla composizione e su come fare chiarezza in merito alla forma. Queste sono le persone che, credo, mi hanno influenzato tra i 15 e i 25 anni.

A Berkeley tra il 1968 e il ’72 ha studiato psicologia, conseguendo un PhD in geologia: entrare nella profondità – della mente, come della terra – è il fil rouge dei suoi studi che nel 1981 l’hanno portata in Sudafrica. In che modo la realtà africana cambiato il suo sguardo?

Si possono fare interessanti analogie tra la geologia e la fotografia. Entrambe squarciano la superficie. Quando si cercano oro e diamanti si va a vedere cosa c’è sotto la superficie e si arriva al centro vitale. Si cerca il tesoro.
È la stessa cosa quando scatto, cerco livelli più profondi del mio mondo interiore e provo ad esprimerlo guardando ciò che è davanti a me, trasformandolo di nuovo con la macchina fotografica. Sì, si possono trovare metafore nella geologia e alcune di queste si sono, in un certo modo, radicate in me e mi hanno influenzato. Ma è difficile sapere cosa c’è dietro la mia fotografia, qual è la forza trainante. Sono giunto alla conclusione che non si può arrivare al fondo fino a che il tuo cervello è composto da migliaia di cellule cerebrali.
La mia esperienza, a 64 anni, mi dice che sono parte di un processo evolutivo, dell’evoluzione della vita sul pianeta che è cominciata un paio di milioni di anni fa. Quindi, qualsiasi cosa io dica a proposito della genetica, dell’esperienza, sono altre le energie che possono dare una spiegazione. C’è sempre qualcosa di misterioso in quello che si è. Rispondendo, poi, alla domanda su in che modo la realtà africana abbia cambiato la mia visione, posso senz’altro affermare che in Africa le cose sono di terra e non di plastica.
Le case sono fatte di mattoni, legno, non c’è tecnologia e le mie immagini hanno in sé la terra. Inoltre, credo che nella cultura africana sia molto presente l’elemento spirituale: il culto degli antenati pervade tutta la cultura africana. Penso che queste energie a cui si affidano gli africani, in un modo o nell’altro, siano finite nelle mie foto.