La battaglia ucraina ha una caratura politica, strategica e persino emotiva, tanto un pezzo di paese vuole svincolarsi dall’influenza russa e tanto Mosca, con la sponda dei suoi lealisti nell’est, non intende cedere la presa su Kiev, dove la storia statuale e religiosa dei russi, tanti secoli fa, ebbe inizio. Ma il confronto in corso, già dalle prime battute, quando Yanukovich ciondolò tra Bruxelles e Mosca cercando di carpire la più ampia mole di denaro possibile, è stato anche intriso di risvolti economici, che non mancano neanche in queste ore.

Il fatto è che l’est ucraino, l’attuale terreno di scontro, è il baricentro produttivo del paese. Ed è irrinunciabile sia dal punto di vista di Kiev che da quello della Russia e dei filorussi. Negli oblast (regioni) dell’est si concentra la parte più lunga della spina dorsale industriale dell’ex repubblica sovietica. La regione di Donetsk, ex roccaforte di Yanukovich e del Partito delle regioni, nonché bastione demografico del paese (quasi cinque milioni gli abitanti), è la vertebra più importante. Metallurgia e carbone i due settori chiave.

Nel 2013 ha garantito il 12,4% del Pil nazionale: tanto quanto ne hanno messo insieme cinque regioni dell’ovest (Transcarpazia, Ivano-Frankivsk, Leopoli, Volyn e Ternopil), dove l’economia è meno ingessata, ma anche molto più leggera. Ma questi numeri vanno letti anche in controluce. L’industria dell’est è pesante, vecchia, stantia. È sempre vissuta grazie ai finanziamenti dello Stato. Questo ha comportato la sopravvivenza dei grossi conglomerati, controllati dagli oligarchi. Quelli di stazza minore si sono estinti alla spicciolata dopo il crollo dell’Urss, nel 1991.

Ci sono state conseguenze devastanti sul lato dell’occupazione. Molta gente è rimasta a spasso. Sul fronte del carbone è nata un’industria informale, strutturata intorno ai kopanki, piccoli bacini illegali, controllati spesso dal potere criminale, dove si lavora con paghe misere e senza uno straccio di sicurezza. Centinaia e centinaia di operai, nel corso degli anni, sono stati ingoiati dalla terra. Il paradosso dell’est è proprio questo: da una parte è economicamente indispensabile, dall’altra ha bisogno di una massiccia iniezione di riformismo industriale.

Quella che gli oligarchi, abituati a vivere senza concorrenza, agganciati ai fondi pubblici e capaci di assicurarseli grazie alla loro capacità di comprare amicizie, non hanno mai voluto infondere.

Sul futuro dell’est, politico ed economico, non si possono tracciare scenari certi. Si possono però squadernare due ipotesi. Se l’Ucraina restasse unita – primo scenario – il governo di Kiev dovrà in qualche modo garantire che la produttività dell’est resti alta, vuoi perché ha bisogno di export e vuoi perché le grandi industrie, ma anche le strutture carbonifere informali, danno lavoro a migliaia di persone. La macelleria sociale potrebbe solo ampliare la fronda, spostando sempre più gente dalla parte della Russia. L’esecutivo deve poi tenere conto delle indicazioni dell’Ue e del Fmi, che hanno stanziato diversi miliardi di dollari in prestiti, pretendendo riforme.

Potrebbero indispettire gli oligarchi, non abituati a masticare il gergo del cambiamento, ma anche propensi a evitare la scissione del paese, visto che farebbero fatica a reggere la concorrenza con il capitale russo. Anche i lavoratori sono agitati. I minatori sono sul piede di guerra. Quelli dei kopanki in modo particolare, si può presumere, dato che è da poco passata una misura sullo smantellamento delle miniere abusive, benché non sia chiaro il reale impatto che potrebbe avere. La cosa certa è che Yatseniuk cammina sul filo del rasoio. La carta della federalizzazione e le riforme a piccole dosi potrebbero non bastare a governare la situazione nell’est. Sempre che l’offensiva del governo non scateni la rissa totale.

Scenario numero due: la Russia si prende l’est, replicando il caso Crimea o procedendo secondo schemi informali. Anche in questo caso ai vantaggi si affiancano costi ingenti. Sul Washington Post il direttore del Centro per gli studi post-industriali di Mosca, Vladislav Inozemtsev, ha stimato che il mantenimento dell’ossatura industriale dell’est ucraino potrebbe equivalere a un esborso da una ventina di miliardi di dollari l’anno. Una cifra enorme, considerato i tempi non così floridi dell’economia russa. Il Pil ristagna, i capitali vanno all’estero. Putin vuole correre il rischio fino in fondo o pensa a conquistare posizioni di forza in vista della federalizzazione dell’Ucraina, ammesso che vada in porto?