Non abitiamo in una nazione ma in una lingua, per questo la nostra madre patria è la nostra Lingua”, con queste parole di Khalil Gibran comincia Metal Gear Solid V The Phantom Pain, l’ultima opera di Hideo Kojima maestro e filosofo del videogioco. Intanto David Bowie canta The man who sold the world, da un mangianastri del secolo scorso, perché siamo nell’orwelliano 1984. Ci vorranno decine di ore di gioco per comprendere come la citazione iniziale del poeta libanese sia la chiave di lettura di questo capolavoro vasto, quasi smisurato, ermetico, a tema bellico ma antimilitarista nello spirito, una lunga metafora sull’antica guerra tra la bestialità della violenza e la ragione della parola che diventa il linguaggio che definisce un popolo e la sua storia.

La prima ora di gioco è sconvolgente, ci svegliamo in un ospedale nei panni martoriati del leggendario ex-agente speciale, novello Che Guevara e infine guerriero sognatore di uno stato utopico di soli soldati, Big Boss. L’(anti)eroe con la benda nera nello stile piratesco di John Ford e Snake Plynskeen ha trascorso nove anni di coma in seguito alla disastrosa distruzione della sua base, come narrato in Ground Zeroes; una scheggia nera, irremovibile, gli fuoriesce dalla fronte e gli manca un braccio sostituito da un iper-tecnologico arto artificiale. Dopo pochi minuti l’ospedale è invaso dalle sanguinarie truppe di chi vuole morto Big Boss e, mentre queste fanno strage dei degenti, ci trasciniamo e strisciamo per fuggire dal massacro, inseguiti inoltre da un colosso avvolto dalle fiamme e da un ragazzo con una maschera antigas che levita spettrale. Una scena da incubo ai confini dell’horror che mette in mostra l’impareggiabile maestria registica di Hideo Kojima, un piano sequenza che si eterna interattivo tra fuochi, sangue, spari, disperazione e esplosioni. Ci aiuta un uomo misterioso che si fa chiamare Ishmael e nomina Big Boss “Ahab” in una deriva melvilliana che coinvolgerà anche la personalità del protagonista, qui davvero prossimo a quella determinazione demoniaca e romantica del capitano della Pequod.

Si tratta solo si un oscuro, filmico preludio di quella che sarà un’esperienza squisitamente ludica come nessun’altra di questa saga decennale. Non che i lunghissimi, sublimi intermezzi non-interattivi degli altri episodi qui siano assenti, ma sono diluiti nell’enormità del videogioco e talvolta vanno cercati nella forma di materia opzionale visibile solo grazie all’impegno del giocatore, come se Kojima abbia voluto mettere alla prova la passione e il rigore del proprio pubblico, premiandolo con visioni memorabili. Insomma, se volete vedere il vero finale ci sarà da sudare!

Metal Gear Solid V, per Playstation 4, XBox One e Pc, si divide in momenti di azione pura che consistono in infiltrazioni in zone nemiche risolvibili anche in maniera non-violenta, con una pistola stordente, la pazienza e una fenomenale abilità nel restare sempre invisibili, e in segmenti gestionali-strategici. In questi ultimi dobbiamo gestire la nuova Mother Base di Big Boss, una serie di piattaforme nel mare delle Seychelles dove egli rifonda il suo esercito personale. Le missioni principali sono una quarantina ma sono 150 quelle secondarie e opzionali, molte delle quali tuttavia imprescindibili non solo ai fini dello sviluppo di Mother Base. Sono varie e affascinanti: dobbiamo sminare zone piene di ordigni, recuperare prigionieri, salvare gli animali per conto di una Ong, catturare soldati nemici per portarli dalla nostra parte, recuperare gli interpreti che ci rendono possibile capire le lingue parlate dalle varie etnie…

Due sono le aeree gigantesche attraverso la quali viaggeremo, L’Afghanistan durante l’occupazione russa e l’Angola, dove laghi di petrolio fuoriusciti dagli impianti abbandonati stagnano neri tra le erbe della savana e le ombre della foresta.

Proseguendo nel gioco potremo portare con noi alcune preziose spalle, un bianco cavallo, un lupo selvatico prelevato da cucciolo nel deserto e poi addestrato, un bipede robotizzato d’assalto. Soprattutto Quiet, silenzioso cecchino di una sensualità travolgente, uno dei grandi misteri di Metal Gear Solid V, anche questo rivelabile solo con profonda applicazione, una fanciulla letale che cela dolore e tenerezza, un’altro dei grandi personaggi femminili inventati da Kojima sulla scia di The Boss, Eva e Sniper Wolf.

L’impatto visivo è impressionante per ricchezza di dettagli e lo è altrettanto quello sonoro, con una soundtrack originale di Harry Gregson-Williams che rimanda ai panorami melodici di James Bond filtrati da psicosi musicali alla Bernard Hermann. Inoltre sono presenti decine di canzoni originali dei primi anni ’80 e 70, recuperabili vagando per gli scenari: Ultravox, Joy Division, Toto, Europe, Kim Wilde, Europe, A-ha, Spandau Ballet, The Cure… C’è anche la wagneriana cavalcata delle valchirie che è possibile diffondere dalle casse posizionate sull’elicottero in memoria di Apocalypse Now.

Straripante di temi che emergono in tutta la loro attualità e durezza malgrado il contesto fanta-politico come i bambini-soldato, l’egemonia e connivenza con le dittature delle compagnie petrolifere, il nucleare, le guerre di procura e i complotti delle agenzie governative, Metal Gear Solid V è la summa poetica e artistica di una saga trentennale, l’opera più riuscita e complessa di questa generazione di hardware, il trionfo personale di un genio del videogame (e del cinema elettronico) che con The Phantom Pain ha firmato l’ultimo gioco della sua saga. E’ nota infatti la crisi, le cui ragioni sono ancora oscure, che si è instaurata tra l’autore e la Konami, distributrice e produttrice storica della serie che ha voluto rimuovere la scritta “ A Hideo Kojima Game” dalla copertina del gioco e ha annullato la produzione dell’annunciato Silent Hills che avrebbe visto la collaborazione tra il maestro di Metal Gear e Guillermo Del Toro. Non possiamo per questo che sentire anche noi un “dolore fantasma” virtuale, lo stesso che prova Big Boss per l’arto che gli è stato amputato. Tuttavia Hideo Kojima ha concluso la saga, riconnettendola al suo inizio, in un modo epico e grandioso e sarà difficile che egli, considerato il suo talento, resti senza lavoro.

Non ci resta dunque che vivere, ascoltare, leggere e giocare questo tenebroso tomo, un videogame che rispetta e sollecita l’intelligenza e l’iniziativa di chi lo esperisce e non teme di farsi vettore di idee; smarrirci e ritrovarci nei suoi abissi dove nuotano gli spettri bianchi di giganteschi e imbattibili leviatani per decidere, come Koji Kabuto di Mazinga Z, se usare il potere per essere dei o demoni, consapevoli che contro certi mostri non si può che soccombere, soprattutto quando si lotta da soli. Ci insegna Big Boss che c’è dell’eroismo anche nella sconfitta e ci ribadisce con lo sguardo azzurro e ferito del suo unico occhio che chi “combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro”.