Di Sergei Loznitsa ci sono rimaste negli occhi le sequenze di Austerlitz, riflessione potente sul rapporto con le immagini in una contemporaneità che trasforma anche un campo di concentramento in turismo di massa organizzato di selfie e foto di gruppo. Alla Mostra di Venezia, dove Austerlitz è stato presentato, si sapeva che il regista bielorusso ma ormai stabilito in Germania stava lavorando a un film «narrativo», alternanza questa che fa parte della sua filmografia sancita con l’esordio di My Joy – sulla Croisette in concorso nel 2010. E visto che Loznitsa fa parte di quei registi coccolatissimi da Cannes – era in gara per la Palma anche il suo secondo film, Dans la brume – non poteva mancare questo nuovo Une femme douce.

Ispirato al racconto di Dostoevskij che era già all’origine dell’omonimo film di Bresson, sembra tornare alle atmosfere e alla struttura narrativa di My Joy con cui condivide la circolarità, una sorta di vicolo cieco che condanna i personaggi a un falso movimento, o meglio ancora a un movimento impossibile. E nonostante la cifra di astrazione visiva nel decor di atmosfere surreali, anche qui riesce a iniettare improvvisi passaggi di «realtà»: facce, corpi, risate sdentate incursioni di un paesaggio che è esistenziale L’inizio frontale, somiglia a un film di Kaurismaki: una donna torna a casa, accarezza il cane, prepara la minestra, la divide con l’animale, mangia da sola fissando il vuoto. Ma se il regista finlandese nella tristezza spalanca sempre l’orizzonte dell’utopia, Loznitsa procede nel senso contrario.

La donna è angosciata perché hanno rimandato indietro più volte il pacco per il marito in prigione. Alle richieste di spiegazioni alle poste riceve solo dinieghi sprezzanti, Così decide di andare a vedere di persona. E solitaria, impassibile attraversa un Paese metaforico e reale di corruzione, violenza, miseria sociale e morale, burocrazia esercitata come arbitrio di potere. Di ladri, prostitute, disperati tutti proni a chi gli garantisce un piccolo posto nel banchetto. Sopporta l’aggressività della polizia, l’arroganza degli impiegati, le mani che la perquisiscono, i truffatori che le promettono false illusioni, la cattiveria e lo scherno.Siamo in una temporalità sospesa, busti di Lenin, macchine vintage e all’improvviso il suono di un telefonino irrompe a dirci che invece è il presente. Quale Paese percorre Loznitsa insieme alla sua eroina? La Bielorussia dove è nato o invece la Russia pre e post-sovietica il cui passaggio epocale si confonde in una sorta di continuità?

La prigione coincidecon la città: tutto vi ruota intorno, tutto vi partecipa, ciascuno ne è parte, ciascuno sopravvive come può annegando in un’«anima russa» che Loznitsa dispiega alla massima potenza (quasi pop): alcol, vodka, canti, ubriachi, corpi sfatti, facce gonfie, un’allucinazione permanente tale appare agli occhi di questa «donna dolce» (Vasilina Makotseva), silenziosa, che accetta tutto per affermare il suo diritto di avere una risposta, di libertà, del sentimento, che la condannano a una fine atroce.

Formalmente in Une femme douce Loznitsa si pone all’opposto di quella linea di «narcisismo della crudeltà» ricorrente in molti film del concorso, che troviamo ad esempio nel film russo Loveless. Nella sua metafora della Russia, prima e dopo la caduta dei muri, Loznitsa utilizza la tradizione cinematografica con cui è cresciuto, dalla linea formalista nella prima parte del film a una sorta di Sodoma orgiastica del potere che rimanda al cinema sovietico degli anni 70 o 80. Con un eccesso di ansia esplicativa che finisce per smorzare l’inquietudine di questo incubo del quotidiano.