Nel prologo di Cronosisma (minimum fax, pp. 262, euro 21,00) Kurt Vonnegut definisce quello che ha già deciso essere il suo ultimo libro «una zuppa» ricavata dalle parti migliori di un romanzo (chiamato Cronosisma Uno) con cui si era cimentato nel 1992, ma che aveva abbandonato poiché «non funzionava». Il secondo Cronosisma – uscito nel 1997 negli Stati Uniti, l’anno successivo da Bompiani e ora riproposto nella traduzione di Sergio Claudio Perroni e con un’acuta prefazione di Nicola Lagioia – è un ibrido, un pastiche postmoderno che in quanto rielaborazione di un libro abortito, scritto in forma di memoir aneddotico ma che a sua volta contiene un romanzo di fantascienza centrato su una stravagante anomalia dello spazio-tempo, travalica ogni classificazione di genere.

Il nodo centrale è subito esplicitato: a causa di un’improvvisa «crisi di autostima dell’universo», il 13 febbraio 2001 l’umanità si ritrova sbalzata indietro di quasi dieci anni, e torna al 17 febbraio del 1991. Tuttavia, quella che a prima vista sembrerebbe un’opportunità per rimediare agli errori commessi e riportare l’America a una parvenza di ordine si rivela poco più di una beffa: ognuno è infatti costretto a ripetere per filo e per segno ciò che aveva già fatto. Ne consegue un lassismo generale, in cui definitivamente privati del libero arbitrio, si preferisce abbandonarsi a una sorta di «pilota automatico», che seguirà il suo corso anche dopo i dieci anni di «replica».

Il cronosisma è, tra altre cose, una metafora dell’arte; a un certo punto Kilgore Trout – lo scrittore di fantascienza fallito protagonista del romanzo, nonché alter-ego di Vonnegut sin dai tempi di Mattatoio N. 5 – afferma che gli spettacoli teatrali non sono se non «cronosismi artificiali», dal momento che «gli attori sanno tutto ciò che diranno e faranno, e sanno come ogni cosa andrà a finire. Eppure non hanno altra scelta che comportarsi come se il futuro fosse un mistero». Lo stesso accade a chi scrive un romanzo, specie se autobiografico.
Ma «nella vita vera, così come durante una replica conseguente a un cronosisma, la gente non cambia, non impara mai nulla dai propri sbagli e non chiede scusa»; è in brani come questo che emerge con maggiore amarezza la vena tragicomica di Vonnegut.

In capitoli brevi e incisivi, attraverso un tono discorsivo apparentemente scanzonato, pieno di interpolazioni, digressioni, ricordi personali, citazioni di testi più o meno inventati, Cronosisma assume di volta in volta la fisionomia di un trattato sociologico sull’America contemporanea, di una riflessione metanarrativa sulla scrittura e sull’arte, della rievocazione affezionata dei momenti più importanti della vita dell’autore, e al tempo stesso è una raccolta di aforismi e battute, da leggere senza soluzione di continuità: una vera e propria summa dell’opera di un autore capace di creare fantasmagorie di personaggi, situazioni e luoghi – reali e fittizi – che in Cronosisma fanno la loro ultima, fugace apparizione, quasi a voler prendere congedo dai lettori affezionati, i quali non mancheranno di cogliere ogni riferimento a opere indimenticabili come La colazione dei campioni o Hocus Pocus.

Alla vigilia della pubblicazione di Cronosisma, in una lettera al critico letterario Jerome Klinkowitz Vonnegut definiva il suo romanzo «oltre il postmoderno, assolutamente postumo». La tradizione americana dei libri ritenuti postumi da scrittori più arzilli che mai risale a Mark Twain, che cominciava la sua autobiografia affermando di scrivere dalla tomba, perché «da lì posso parlare liberamente». Nel 2014 William Vollmann ha aperto la sua raccolta di racconti più recente, Ultime storie e altre storie, con una dichiarazione altrettanto spiazzante: «Questo è il mio ultimo libro. Eventuali opere successive a me attribuite saranno state composte da un fantasma».

E se Vonnegut ha riconosciuto più volte la sua affinità artistica con Twain, definito in Cronosisma «l’americano più spassoso della sua epoca», la sua capacità di esplorare, come fa Vollmann, le contraddizioni dell’America contemporanea attraverso la mescolanza di verità e finzione, storia e romanzo, giornalismo e autobiografia, travalica i confini della letteratura postmoderna per avvicinarsi nell’ultimo periodo a quella «New Sincerity» già appannaggio di autori delle generazioni successive. Vonnegut è, in realtà, riguardato da un moralismo a tratti addirittura didascalico – ultimo baluardo contro il relativismo esasperato della contemporaneità.

Letto in questa ottica, il romanzo diventa un’amara meditazione filosofica sulla natura dell’essere umano prigioniero del tempo e della storia, oltre che, come scrive Lagioia nella prefazione, «il racconto del nostro commovente destino di idioti in quanto specie umana». A vent’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione, la lettura di Cronosisma è un’esperienza straniante e per certi versi anacronistica.

Se il giorno fatale ipotizzato da Vonnegut rimanda al terribile bombardamento di Dresda del 13 febbraio 1945 (la cui magistrale rievocazione autobiografica costituisce il climax di Mattatoio N. 5), più inquietante, e se si vuole addirittura profetica, risulta la scelta dell’anno 2001. All’uscita del romanzo, infatti, le Torri gemelle svettavano ancora sullo skyline di New York. Tuttavia, come afferma il narratore di Cronosisma, «le ali della narrativa, anelante d’essere narrata, lo avevano trasportato oltre quello che, alla maggior parte di noi, era parso un abisso insuperabile». È questo, del resto, lo scopo della grande letteratura.