È stato necessario un hashtag diventato «caldo» su twitter, #Messinasenzacqua, perché la notizia che la tredicesima città d’Italia ha i rubinetti a secco da sabato 24 ottobre arrivasse alla ribalta nazionale.

Da una settimana Messina muore di sete. Letteralmente. Per una settimana scuole chiuse, università a mezzo servizio, municipio in cui funzionano una decina appena di uffici, cliniche e studi privati con le porte sbarrate, ristorazione e somministrazione in ginocchio.

Colpa di una frana a Calatabiano, provincia di Catania, che ha tranciato in due l’acquedotto Fiumefreddo, che dalle falde dell’Etna viaggia per 65 disastrati km e porta l’acqua nei rubinetti della città dello Stretto. Una settimana di piogge torrenziali ha devastato la cittadina al confine tra Messina e Catania, facendo franare parte della collina che la sovrasta, nel cui sottosuolo scorrono le condotte che riforniscono d’acqua Messina. Un guasto come spesso ne accadono, nella riviera ionica, una lunga e quasi ininterrotta teoria di zone a massimo rischio e pericolosità idrogeologica.

Ma stavolta qualcosa si è complicato. Parecchio.

I rubinetti a secco di sabato mattina, e i serbatoi che si sono andati svuotando col passare dei giorni, hanno suggerito qualcosa che l’Amam, partecipata del comune di Messina che si occupa di approvvigionamento idrico, non ha comunicato con tempestività: la crisi sarebbe durata molto più del solito. Riparare la condotta, è stato spiegato, sarebbe stato questione di qualche ora. Per arrivarci, però, sarebbe stato necessario costruire una strada sul versante che, fino a qualche ora prima, aveva riversato sul paesello di Calatabiano un uragano di acqua e fango che solo per miracolo non ha fatto vittime.

Comprensibilmente, il sindaco Giuseppe Intelisano ha badato all’incolumità dei suoi cittadini, quindi di lavori neanche a parlarne, almeno fino a domenica sera. Solo lunedi 26 l’Amam inizia le operazioni: entro mercoledi l’emergenza è superata, assicurano dalla partecipata. Mercoledì 28, invece dell’acqua, arriva la doccia. Ghiacciata.

La condotta è riparata, ma la montagna continua a muoversi, col rischio concreto di rovinare giù a valle, portare con sè i novecento litri al secondo di portata dell’acquedotto, e scaricarli dritti dritti sulla testa degli abitanti di Calatabiano. Uno scenario da catastrofe che nessuno si assume la responsabilità di rischiare.

Messina piomba in un incubo, perché Luigi La Rosa, direttore generale dell’Amam, parla di «almeno cinque giorni di lavori, se tutto va bene». Significherebbe dieci giorni tondi senz’acqua in città. Un’emergenza idrica che solo un miracolo impedirebbe di far degenerare in emergenza sanitaria. E sociale. Quindi si convoca un tavolo tecnico. Subito? No. Con comodo, l’indomani alle 10 del mattino, in Prefettura. È giovedi 29, l’acqua in città non arriva più da sabato 24.

«Mettere a rischio un’intera popolazione era fuori discussione», spiega all’uscita dall’incontro un agitato Leonardo Termini, che dell’Amam è presidente. Perché il problema, alla fine, è quello di un territorio devastato dal dissesto idrogeologico. Che ad ottobre ha risparmiato Messina (che nel 2009 ha pianto i 36 morti di Giampilieri), ma la riviera ionica catanese l’ha flagellata sotto acqua e fango in quantità mai viste.

Così un intero versante, che nel piano d’assetto idrogeologico regionale è contrassegnato R4, massimo coefficiente di rischio, si sta sbriciolando.

Non è un caso che la protezione civile regionale, nei trentuno giorni di ottobre, abbia segnalato per Messina l’impressionante cifra di dieci giorni di allerta idrogeologica. Il risultato è una crisi idrica senza precedenti.

Soluzioni? Strutturali nessuna, qualcuna tampone. Effettive non prima di martedì prossimo, se tutto va bene.

«Stiamo lavorando su due fronti – assicura Termini – il primo, quello ovvio, è sulla frana a Calatabiano. Se si stabilizzasse, e stiamo tentando di farlo insieme alla protezione civile regionale, in tre giorni tutto tornerebbe alla normalità. Il secondo fronte è quello di un bypass che consentirebbe di spostare sulla condotta di Fiumefreddo il flusso idrico oggi proveniente dall’Alcantara». Perché, e si stenta a crederlo in una città ridotta da una settimana alla sete, Messina è servita da ben tre acquedotti.

Quello di Fiumefreddo, il più «problematico», quello la cui rottura sta assetando Messina, è anche il più recente. Costruito alla fine degli anni ‘70, 65 km di lunghezza per 970 litri di acqua al secondo, avrebbe dovuto risolvere i cronici problemi di approvvigionamento dello storico impianto della Santissima, 26 km di condutture a scarsa portata costruiti nel 1920 per convogliare in città acqua da due impluvi mai particolarmente gravidi d’acqua.

Poi c’è il terzo, e qui la storia si complica. L’acquedotto dell’Alcantara, infatti, rifornisce la riviera ionica. E un ente regionale. E pure una diga. A pagamento.

L’impianto fu costruito dal comune di Messina nel 1960 con i fondi dell’allora Cassa del Mezzogiorno. La Regione, però, decise di affidarne la gestione all’Eas, ente degli acquedotti siciliani, che di fatto rivendeva a palazzo Zanca l’acqua che scorreva nelle condotte che il Comune stesso aveva costruito. Motivo per il quale l’uso dell’Alcantara fu progressivamente abbandonato. Ancora oggi, l’acqua che sgorga da quelle condotte è usata poco e pagata molto: 65 centesimi al metro cubo, come da convenzione per l’affidamento della gestione a Siciliacque. Due euro al minuto. Non aiuta il fatto che la rete sia praticamente un colabrodo, con falle ovunque che fanno disperdere il 40 per cento della portata idrica.

Tutto nero, quindi? Non proprio. Tre acquedotti fanno di Messina una delle province siciliane più “azzurre”. Catania, Ragusa e Siracusa, per esempio, non ne hanno nemmeno uno. In città, poi, esistono ben quaranta pozzi, da Giampilieri ad Ortoliuzzo. Sette dei quali, però, fino al 2010, data dell’ultimo screening regionale, non erano in uso.

Lo spiegano i manuali d’economia: quando un bene è scarso, il suo prezzo sale vertiginosamente. A Messina chi non ha accesso a una qualsiasi fonte di approvvigionamento se n’è accorto sulla sua pelle. Nonostante il comune abbia istituito due punti di erogazione, intasati da gente esasperata con bidoni al seguito, immediatamente è fiorito un mercato parallelo. Chi fino a pochi mesi fa, preventivi e fatture alla mano, l’acqua la vendeva a 150 euro più Iva per 15 mila litri, oggi si è industriato: in questi giorni i commercianti si sono visti sfilare davanti agli occhi proposte indecenti, tipo 50 euro per 500 litri, o 400 euro per 15 mila litri. «È illegale», fanno sapere dall’azienda acquedotto messinese, l’unica autorizzata a trattare acqua.

E chi di acqua non ne ha, da vendere? Arrotonda coi bidoni. Che oggi, a Messina, costano dieci euro. Sembra una barzelletta, invece è la realtà che supera la fantasia.