Messico 1935/1956 è il nuovo bel libro che arricchisce «Time Travel», la collana editoriale che è forse il fiore all’occhiello della casa editrice Humboldt Books, quantomeno per l’omogeneità nella scelta dei titoli e l’identità grafica. Il volume presenta una selezione di immagini fotografiche legate al Messico il cui autore è Josef Albers (1888-1976), nome fra i più importanti di quell’utopia creativa che fu il Bauhaus. Un artista multidisciplinare, il cui contributo relativo a questioni legate all’arte astratta è stato essenziale, senza dimenticare la sua elaborazione teorica, e l’importantissima attività didattica negli Stati Uniti (Black Mountain College, Yale).

A corredo della galleria visiva ci sono dei testi, pertinenti e non didascalici. Prima delle immagini si trovano due introduzioni di taglio diverso. Una lettera ai coniugi Kandinskij di Anni Albers – designer, artista, e moglie di Josef – con una aggiunta da parte di lui; uno scritto di Brenda Danilowitz, curatrice a capo della fondazione dedicata all’opera degli Albers. A chiusura della serie fotografica, si trova invece un bel saggio di Luca Galofaro, docente accademico e curatore.

Entrando nel merito dell’iniziativa, come prima cosa non si può non presentare il contesto delle immagini in questione. Danilowitz scrive: «Alla fine del dicembre 1934, Josef e Anni Albers compiono la prima di una serie di visite a Cuba e in Messico – e successivamente più a sud in Cile e Perù – che sarebbero proseguite per i successivi tre anni. Le fotografie di Albers osservano il Messico da ogni possibile angolazione e punto di vista e alla fine sono più di cinquemila. Sebbene pensate con accortezza appaiono casuali, non in posa e non composte. Piuttosto che idolatrare e commemorare i loro soggetti, registrano il mondo in modo concreto, mappandone i dettagli con occhio attento».

Per gli Albers le visite in Messico (https://cms.ilmanifesto.it/quadrati-allombra-delle-piramidi/) hanno poi significato l’inizio della loro collezione di figure e manufatti locali, una pratica da interpretare come, anche, qualcosa di organico al loro modo di intendere l’arte. In merito, si può citare una frase scritta da Josef ai Kandinskij: «Il Messico è davvero la terra promessa per l’arte astratta.» Qui, emergerebbe una specie di tradizione discorsiva che appare frequente in molti discorsi d’artista, ovvero il tema dell’altrove, qualcosa che può avere diversi nomi – locus amoenus; buen retiro eccetera – e che indica una specie di punto di riferimento fisso nella psicologia creativa di alcuni/e autori/autrici. In questo ambito, l’artista tedesco sembra essere in felice compagnia. Tuttavia, la sua «patria elettiva» non sembra essere fuori dal tempo, quanto – invece – espressione di uno spazio anacronistico per l’arte astratta. «Qui questa pittura è antica, ha più di mille anni. E sopravvive ancora nell’arte popolare.» Così continua il suo messaggio ai Kandinskij.

Passando dal contesto al testo, non si può non essere d’accordo con quanto dice Danilowitz. Le fotografie messicane di Albers funzionano come una specie di mappatura di forme potenzialmente infinite, tracce da studiare in relazione al suo lavoro sull’astrazione. L’occhio fotografico del tedesco tende principalmente alle geometrie delle linee di ciò che osserva, riuscendo a captare effetti stranianti molto particolari (penso alla due immagini, datate 1952, in cui si vede la Piramide dell’indovino a Uxmal).

Quando invece c’è la presenza umana, forse viene fuori meglio quella casualità di cui parla Danilowitz. A tutto questo, va aggiunta anche una ulteriore osservazione sulla selezione fotografica. Nonostante Albers non pare essersi mai interessato alla fotografia per fini narrativi, Messico 1935/1956 sembra invece presentare un montaggio visivo che facilita la possibilità di immaginare una specie di proto-racconto delle sue visite in quello Stato. Ovvero, qualcosa che rende il libro più di una semplice documentazione.