Una strategia del terrore diffusa su tutto il territorio. Così, nel libro-inchiesta Ni vivos ni muertos, Federico Mastrogiovanni interpreta il fenomeno della sparizione forzata in Messico. Pubblicato da Derive Approdi con una nota di Gianni Minà e un prologo di Jaime Avilés, il libro intreccia l’indagine al racconto, le cifre e le voci dei famigliari, le analisi e le testimonianze di giornalisti e avvocati. Preciso e battente, mostra le responsabilità attuali e gli antecedenti storici di un intreccio criminale e di potere balzato agli occhi del mondo dopo la scomparsa dei 43 studenti normalistas di Ayotzinapa, il 26 settembre del 2014. Istituzioni corrotte, crimine organizzato e aziende multinazionali – dice l’autore – hanno interesse a mantenere e alimentare questa strategia del terrore per controllare quelle zone del paese ricche di risorse naturali, energetiche e minerarie.
I numeri sono da brivido: oltre 30.000 scomparsi, dal 2006 a oggi. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International (La situazione dei diritti umani nel mondo, Castelvecchi, 2015), lo scorso agosto il governo ha ammesso che circa 22.611 persone risultavano disperse, 9.790 delle quali erano scomparse durante l’attuale amministrazione di Enrique Peña Nieto, e 12.821 durante quella del presidente Felipe Calderon (in carica dal 2006 al 2012). Fra queste, moltissime donne (attualmente ne vengono uccise in media sei al giorno).

L’esecutivo non ha spiegato in che modo siano stati ottenuti i dati – di certo approssimati per difetto, sia perché spesso la gente non denuncia, sia perché le indagini non vengono svolte -, ma ha confermato il persistere dell’impunità: sono stati raggiunti solo 7 verdetti di colpevolezza, a livello federale, tutti fra il 2005 e il 2010. Il 1 dicembre del 2012, quando il governo Calderon è giunto al termine, ha presentato un saldo di oltre 80.000 morti nella «guerra alla droga»; di circa 200.000 persone prelevate a forza dalle loro case; e di centinaia di vittime di rapimenti, estorsioni e violenze.

Come ricorda anche l’accurata inchiesta della giornalista messicana Anabel Hernandez, condotta per anni tra i cartelli del narcotraffico (La terra dei narcos, Mondadori, 2014), quello della lotta alla droga è un grande affare che alimenta se stesso, e una colossale truffa che serve all’industria militare e al controllo dell’opposizione sociale. In un paese di povertà e disuguaglianze, strategico per il ricco mercato della droga Usa, il mondo dei narcos è spesso l’unica sponda di sopravvivenza per i contadini poveri. Il rapporto tra mafia e politica è innervato alla storia del Messico, ma il punto di non ritorno – ci ha detto Hernandez – si ha con la vicenda Iran-Contras, si deve alla politica del governo Usa, messa in atto dalla Cia negli anni ’80 per sconfiggere il comunismo nella regione, in primo luogo il sandinismo in Nicaragua. Reagan ha finanziato il narcotraffico in Messico, la Cia ha creato dei mega cartelli, ha convertito la vecchia piattaforma del traffico illegale in una multinazionale del crimine che oggi ha la sua principale forza nella legalità: giacché il denaro del narcotraffico circola nelle grandi banche, principalmente Usa, e foraggia gli apparati politici e governativi.

Il prossimo 7 giugno, il Messico andrà alle urne per eleggere 500 deputati federali, 9 governatori e oltre 1000 sindaci. L’appuntamento ha però già fatto notizia più per gli omicidi o le scomparse di diversi candidati che per i programmi elettorali. L’assenza di garanzie democratiche elementari è evidente. Il 14 maggio è stato ucciso Enrique Hernandez, dirigente di Morena, il nuovo partito del due volte candidato alla presidenza Manuel Lopez Obrador – che si è allontanato dal Prd per le sue politiche di alleanze con i partiti tradizionali, il Pri e il Pan. Hernandez si candidava a sindaco di Yurecuaro, nel Michoan. Il primo maggio è stato ammazzato anche Fabian Quiroz, candidato del Pri al municipio di Chilapa, nel Guerrero. E nel marzo scorso è stata eliminata Nava Gonzalez pre-candidata del Prd al municipio vicino, quello di Ahuacuotzingo.
Movimenti e famigliari dei 43 studenti scomparsi hanno annunciato il boicottaggio delle elezioni «finché non torneranno i nostri figli», e finché non si profileranno «cambiamenti strutturali». Una prospettiva per ora lontana, nel pieno delle privatizzazioni selvagge portate avanti da Peña Nieto.

Uno studio ufficiale, condotto a livello nazionale, ha calcolato che il numero di rapimenti nel 2013 era arrivato a 131.946 rispetto ai 105.682 registrati nel 2012. Rapimenti e sparizioni forzate sono continuati a ritmo sostenuto. Nel novembre scorso, sette militari sono stati inquisiti per le esecuzioni extragiudiziali di 22 persone, accusate di appartenere a una banda armata a Tlatlaya, nello stato del Messico. Mastrogiovanni racconta l’episodio e lo analizza da un’altra prospettiva. Il 30 giugno del 2014, uno squadrone di soldati ammazza, in un magazzino, 22 ragazzi tra i 15 e i 20 anni. Tre di loro si salvano. Tre mesi dopo, uno racconta la sua storia a un giornalista di Esquire, smontando l’enfasi con cui le istituzioni hanno celebrato la vittoria «contro il crimine».

«Le esecuzioni extragiudiziali di massa e la sparizione forzata di persone, insieme alla tortura come pratica comune da parte delle forze dell’ordine, sono gli indicatori del ruolo dello Stato nella produzione della violenza in Messico», scrive Mastrogiovanni. Quattro giorni dopo la denuncia di quell’episodio, l’attacco agli studenti di Ayotzinapa e la scomparsa dei 43. Il libro ricostruisce la storia e il contesto in cui sono nate le combattive scuole rurali, nelle campagne poverissime del Guerrero, ricorda l’esempio e il sacrificio del maestro Lucio Cabañas Barrientos. «L’esercito – scrive – controlla lo Stato del Guerrero da oltre quarant’anni. La zona di Iguala e Arcelia (spaventosamente vicina a Tlatlaya) sono controllate dall’esercito messicano. E’ l’industria mineraria uno dei fattori di maggior rilevanza collegato con la violenza in Messico. Chi controlla il territorio può negoziare con le imprese minerarie. E quale modo migliore di controllare il territorio se non con la violenza e il terrore? E i contestatori, quelli che si oppongono ai megaprogetti, andranno eliminati».

In che modo? Il giornalista indaga tra le evidenti lacune dell’inchiesta sulla scomparsa dei 43. Omar Garcia, un sopravvissuto alla mattanza, racconta che gli studenti avevano preso alcuni pullman – una pratica consueta nelle loro proteste – per recarsi a Iguala a raccogliere fondi per le iniziative. Poi sono stati attaccati da narcos e polizia. Una strategia militare concertata – spiega un ufficiale ben informato – che chiama in causa lo strapotere dell’esercito e le coperture politiche di cui sempre gode. Secondo la versione ufficiale, gli studenti sono stati consegnati al cartello dei Guerreros unidos e da questi bruciati nella discarica di Cucula. Raccogliendo il parere di esperti e testimoni, Mastrogiovanni smonta però la versione pezzo per pezzo: è scientificamente impossibile bruciare tutti quei cadaveri e farli scomparire come hanno sostenuto alcuni pentiti sotto tortura. Dove sono allora i 43? Nelle numerose fosse comuni portate alla luce durante la loro ricerca non sono stati trovati. In compenso, sono stati identificati i resti di alcuni migranti scomparsi, forse qualcuno di quelli sequestrati per avere il riscatto dalle famiglie: un altro tema trattato nel libro di Mastrogiovanni.

Intanto, movimenti e famigliari degli studenti scomparsi sono tornati in patria dopo un viaggio internazionale per chiedere la riapertura dell’inchiesta. In Italia, hanno manifestato davanti all’ambasciata del Messico: «Vogliono spaventarci e certo siamo come bersagli che camminano, ma non abbiamo paura», ci ha detto il giovane Omar Garcia.