Ciudad Juarez dista quasi duemila chilometri dallo stato del Guerrero, dove il 26 settembre scorso sono scomparsi 43 studenti messicani. Ma qui la violenza messa in campo da bande armate e polizia non è certo da meno: dal 1993 a oggi sono state uccise circa quattromila donne. Ciudad Jaurez è una città di confine la cui struttura si è profondamente modificata dopo la firma, giusto vent’anni fa, del Trattato di Libero Scambio del Nord America (Nafta, per l’acronimo inglese). Si tratta di un confine diviso da un muro metallico che corre per centinaia di chilometri ma che rimane ambivalente e denso di pratiche politiche: da un lato facilmente transitabile per le merci, dall’altro poroso, garantendo così ai vari mediatori delle migrazioni internazionali di agire sul mercato del lavoro filtrando la circolazione della forza lavoro.
I processi produttivi e sociali che si sono sviluppati a cavallo della frontera sono ormai alla “seconda generazione”. Ciudad Juárez è una città industriale, nel senso più stretto del termine: una miriade di fabbriche di grandi dimensioni letteralmente intrecciate nel tessuto urbano. Dopo l’ondata di investimenti nei settori tessile e automobilistico degli anni Ottanta e Novanta, oggi è l’elettronica a costituire il principale comparto produttivo, occupando il 35% dei 360 mila lavoratori dell’industria manifatturiera dell’area.

Nell’area di Ciudad Juárez, classificata come zona economica speciale, le imprese sono esentate dal pagamento delle tasse e dell’Iva. Nel 2013 in tutto il Messico le maquiladoras a regime speciale sono 6.300 e occupano ormai 2,3 milioni di persone, per quasi il 90% in mansioni alla linea di montaggio. E’ qui che fin dal 2004 opera la Foxconn che è diventata la più importante impresa di elettronica in Messico. Nel 2011, l’azienda taiwanese esportava per 8,6 miliardi di dollari, il 2% del totale delle esportazioni messicane, superata solo dalla General Motors. L’ex ambasciatore messicano in Cina, Sergio Ley, poteva così dichiarare: «Le aziende cinesi hanno bisogno di internazionalizzarsi e la piattaforma idonea per farlo in tutto il mondo è il Messico». In quest’area hanno investito aziende globali leader del settore elettronico quali Philips, Epson, Toshiba, Flextronics, ma anche automobilistico, della gomma, farmaceutico e dell’elettrodomestico quali Ford, Delphi, Bosch, Goodyear, Johnson & Johnson, Electrolux.

La localizzazione geografica della città permette alle multinazionali di sviluppare una logistica globale poiché si trova in un punto centrale tra i porti statunitensi dell’Oceano sia Atlantico sia Pacifico, rispettivamente Houston e Los Angeles. Questa posizione strategica si è rafforzata a partire dal maggio del 2014, quando Union Pacific ha inaugurato, con un anno di anticipo, un enorme centro logistico, la Rampa Intermodal di Santa Teresa, posto sul versante statunitense e costato 400 milioni di dollari con una capacità di 225 mila container. Il polo è situato a circa trenta chilometri a Ovest dalla metropoli composta da El Paso e Ciudad Juárez ed è connesso con Los Angeles grazie a una ferrovia lunga più di 1.200 chilometri.
Nel lato messicano, a San Jerónimo, di fronte a questo centro logistico, sorge il nuovo stabilimento della Foxconn, dove l’azienda intende concentrare la sua intera produzione, ora suddivisa tra tre siti collocati nella periferia di Ciudad Juárez. Le fabbriche producono per Hewlett Packard, Cisco e Dell con una forza lavoro complessiva di circa 22 mila persone. Come ci spiega un manager delle risorse umane: «la centralizzazione della produzione nello stabilimento consentirà all’azienda di ridurre i costi, in quanto le economie di scala abbasseranno i prezzi legati al trasporto dei dipendenti, ai servizi di mensa e alla logistica».
La manodopera di cui si avvale l’industria maquiladora locale proviene prevalentemente dagli stati messicani di Veracruz, Coahuila e Sinaloa, ma anche di altre zone dello stato di Chihuahua dove è situata Ciudad Juárez. Tra le maestranze, anche coloro che sono nati qui sono spesso figli o figlie di migranti interni che hanno già sperimentato sulla loro pelle il lavoro nelle maquiladoras. In quest’area fortemente militarizzata sono pochi i migranti che tentano di oltrepassare il confine, preferendo puntare sulle zone a est molto più rischiose perché desertiche e isolate. Ma Ciudad Juárez è uno dei luoghi privilegiati dove le autorità statunitensi rispediscono forzosamente i migranti senza documenti, indipendentemente da qualsiasi considerazione sulla loro area di provenienza. I migranti rimpatriati vanno a rimpinguare i bacini di forza lavoro priva di proprietà e di reti sociali di sostegno che si trovano di fronte a una sconfortante alternativa: un’occupazione nelle maquiladoras a basso salario, oppure l’adesione a uno dei gruppi criminali che reclutano affiliati attraverso annunci ormai reclamizzati anche nelle principali strade della città. Una scelta, questa, analoga al dilemma in cui si dibattono i giovani locali delle classi popolari.
Negli stabilimenti della Foxconn questa giovane manodopera assembla prodotti elettronici (computer, tablet, desktop, laptop) attraverso catene di montaggio tecnologicamente povere, tranne qualche dispositivo elettronico per controllare il funzionamento del prodotto finale. Se le abilità manuali e cognitive richieste sono elementari, l’intensità è spossante: «non è difficile fare quello che ti chiedono, ma è molto stancante stare tutto il giorno in piedi accanto alla linea, facendo la stessa operazione e a volte velocemente, tanto che non possiamo perdere tempo neanche per andare in bagno».

Sulla base del flusso di commesse, l’azienda regola strettamente la presenza della manodopera necessaria. Infatti mentre impiegati, supervisori e manager sono solitamente selezionati e reclutati direttamente dal dipartimento delle Human Resources, gli operai e i capi catena sono assunti attraverso Cassem, un’agenzia di lavoro temporanea. Alla Foxconn non sono previsti premi di produzione e la velocità di esecuzione è frutto di un controllo asfissiante da parte dei supervisori e dei capisquadra. Nei normali periodi di attività lavorativa la forza lavoro opera su due turni di 9 ore e mezza che comprendono due pause durante le quali gli operai possono usufruire della mensa. L’organizzazione dei turni di lavoro mira a impedire un eccessivo accumulo, da parte dei dipendenti, di ore di straordinario: tuttavia quando le commesse devono essere consegnate l’orario di lavoro si prolunga fino a turni di 14-15 ore. L’estrema variazione degli orari di lavoro, senza mediazione istituzionale è fonte di disagio, in particolare per le madri: «cambiano i turni molto spesso… loro non sanno, delle necessità della gente, se hanno bambini… e ti dicono ‘domani venga prima’ o ‘oggi deve fermarsi per fare straordinari’, e devi farlo».
Il duro regime di fabbrica messicano prevede bassi salari, almeno per gli operai, la cui paga base è pari a un centinaio di euro mensili e arriva a una media di circa 140-150 euro al mese (2500 pesos), solo grazie alle ore di straordinario. Inchiodati al salario minimo – per otto ore al giorno 4 euro negli stati del nord e 3,75 euro in quelli del sud del Messico – vi sono ben 6,5 milioni di lavoratori sui 50 milioni di occupati conplessivi. Il valore dei salari messicani rispetto a quelli cinesi in questi anni è mutato: se alla fine degli anni Novanta la media salariale in Messico era circa quattro volte quella della Cina, oggi la differenza si è livellata, quando non invertita. La politica dei bassi salari è attentamente monitorata dalla potente Asociación de Maquiladoras (Amac), la quale sovraintende a che i suoi associati mantengano i medesimi livelli nel tentativo di ridurre sia il costo della forza lavoro sia il turnover lavorativo. Tuttavia, come racconta un’operaia, l’avvicendamento della manodopera è continuo: «Da noi entrano circa cento persone alla settimana, ma è anche tantissima la gente che se ne va. La gente così come entra, se ne va. È per questo che stanno sempre assumendo perché la gente non regge… Quelli che abitano più lontano ed escono alle sei e mezza del pomeriggio arrivano a casa alle nove, perdono troppo tempo». Il tempo di viaggio è uno dei fattori che spingono gli operai a cambiare fabbrica. Molti impiegano più di due ore per andare e ritornare dal lavoro, e in qualche caso arrivano anche a quattro ore al giorno, viaggiando su vecchi autobus dismessi negli Stati Uniti soggetti a periodiche rotture che allungano a dismisura i tempi di trasporto: «il bus si rompe spesso e la gente è costretta a muoversi a piedi», afferma un operaio.

La localizzazione lontano dal tessuto urbano lega i lavoratori al trasporto programmato dall’azienda, sicché è pure difficile lasciare il posto di lavoro, un elemento questo che è fonte di tensione, tanto che l’unico sciopero degli ultimi anni registrato a Ciudad Juárez è stato proprio alla Foxconn su questa questione: il 20 febbraio del 2010 circa 300 operai del turno pomeridiano hanno appiccato il fuoco all’edificio della mensa poiché l’azienda, per indurre gli operai a svolgere lavoro straordinario, si rifiutava di fare arrivare gli autobus. Il giorno dopo, con il pretesto della scarsità di lavoro, l’agenzia interinale ha iniziato a licenziare gli scioperanti a gruppi di 50 alla volta. All’interno delle aziende i manager hanno mano libera nella contrattazione con una forza lavoro che viene individualizzata anche attraverso l’uso delle agenzie di lavoro temporaneo. Non sorprende quindi che una delle principali mancanze segnalate dagli operai sia la scarsissima presenza sindacale: «non c’è il sindacato, quando è stato fatto lo sciopero, sono venuti a volantinare… ma i capi gli hanno impedito di entrare e poi non li ho più visti», ci racconta un’operaia.
Dopo un importante percorso di sindacalizzazione sostenuto anche da associazioni e organizzazioni non governative durante gli anni Novanta, i sindacati sono stati marginalizzati. Tra il 2006 e il 2012 nell’ambito della cosiddetta «guerra contro il narcotraffico», promossa dal governo federale messicano e sostenuta anche dalle autorità statunitensi, sono stati uccisi non solo membri delle bande criminali, ma anche decine di attivisti sociali, giornalisti e militanti che promuovevano la protezione dei diritti dei lavoratori, delle donne, e della popolazione marginalizzata. Il consolidamento della seconda generazione di maquiladoras costituita da imprese multinazionali che giungono qui da tutto il mondo è quindi avvenuto grazie anche all’indebolimento delle organizzazioni sindacali e della società civile. L’abilità delle multinazionali di mantenere gli stabilimenti liberi dal sindacato è tuttavia una prospettiva sulla quale operaie e operai non paiono per nulla disponibili ad adagiarsi, consci che la partita può, di nuovo, riaprirsi.