Lo stato uccide. Una denuncia espressa con forza dai movimenti e dai famigliari dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi in Messico a fine settembre del 2014. Una denuncia che torna dopo ogni massacro esibito dai militari. Una denuncia che emerge dalle indagini sulla strage di Tlatlaya (a sud dello stato di Messico), il 30 giugno del 2014. Allora vennero uccisi dall’esercito 22 civili, fatti passare per narcotrafficanti. Una delle tre giovani sopravvissute ha trovato però il coraggio di far emergere un’altra versione: solo un morto è rimasto vittima di uno scontro a fuoco precedente il massacro. Il resto dei civili è poi stato ammazzato a sangue freddo dai militari.

La ragazza ha anche sostenuto di essere stata rapita e angariata durante la sua detenzione. Secondo la testimone, anche i feriti vennero uccisi, e fra questi una ragazzina. Ora i documenti rivelati dalla ong Centro Prodh e tratti dal fascicolo dell’inchiesta confermano questa versione e accusano una catena di comando dell’esercito che ha risposto a ordini precisi: «Le truppe dovranno operare di notte in modo massiccio e di giorno ridurre l’attività per abbattere i delinquenti col favore dell’oscurità». Un documento acquisito agli atti dell’inchiesta che ha finora portato in carcere otto militari.

Il gruppo di avvocati che fa parte di Prodh assiste la testimone che, nonostante le pressioni, ha messo in moto l’indagine. La loro azione è sostenuta da altre organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty International o Articulo 19, che stanno dando risalto alla questione a livello internazionale. L’ordine, sottoscritto dal tenente del 102mo battaglione di fanteria, Rodriguez Martinez (uno dei detenuti per disobbedienza e infrazione al dovere) evidenzia «il modo in cui si svolgono le operazioni e le responsabilità del segretario della Difesa», dice il documento reso pubblico dagli avvocati.

Finora, l’esercito ha sostenuto che quella notte un convoglio militare di pattuglia nel territorio si era imbattuto in un gruppo armato che aveva aperto il fuoco all’arrivo delle divise. Per mesi, non è stata resa pubblica l’identità degli ammazzati, né si è chiarito perché, con quella carneficina, nessun militare fosse risultato ferito. Una circostanza che ricorre spesso durante le operazioni dell’esercito contro «la criminalità organizzata», in cui sono impiegati oltre 40.000 militari, appoggiati da «consulenti» Usa.

Nel grande business della sicurezza e della «lotta al narcotraffico», che serve a soffocare l’opposizione sociale e a occultare le cause che portano a delinquere, i militari godono di particolare impunità. A giudicarli, sono infatti sempre compiacenti tribunali militari. E in Messico, solo dall’1 al 2% dei delitti, compresi gli omicidi, vengono condannati dai tribunali. Per questo, le organizzazioni per i diritti umani chiedono che i casi vengano trasferiti a tribunali civili. Negli Usa, 80 deputati hanno consegnato al Segretario di stato John Kerry una lettera in cui esprimono preoccupazione per le violazioni commesse in Messico, che vanno molto oltre i casi di Tlatlaya e di Ayotzinapa. Anche per la scomparsa dei 43 studenti vengono chiamati in causa i militari: nelle cui caserme si tortura e si uccide. I cadaveri – dicono i movimenti – vengono bruciati nei forni crematori clandestini.

Durante la presentazione del rapporto di Prodh, la madre di un’adolescente uccisa a Tlatlaya ha sostenuto che i soldati hanno ucciso i civili uno a uno dopo averli catturati e interrogati.
E altri due giornalisti sono stati uccisi a Veracruz e Oaxaca, dove, dal 2014, hanno perso la vita 7 reporter, quasi la metà di quelli ammazzati in tutto il paese.