«In Messico, bisogna sovvertire la piramide. Per questo, ci organizziamo dalla base». Così dice al manifesto la giovane indigena Zapoteca, Dali Silvia Angel Perez.

L’abbiamo incontrata a Roma nella sede dell’Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo. L’agenzia dell’Onu ha organizzato il Convegno mondiale dei popoli indigeni che si conclude domani e a cui farà seguito l’elezione del nuovo presidente (candidata anche la messicana Maria Eugenia Casar).

foto Dali Silvia Angel Perez
Dali Silvia Angel Perez

Il Convegno Ifad – ha spiegato al manifesto la coordinatrice per le questioni indigene e tribali, Antonella Cordone – «si svolge a 10 anni dalla Dichiarazione dei popoli indigeni delle Nazioni Unite, approvata dagli Stati membri nel 2007, che ha completato la Carta dei diritti umani. La Dichiarazione riconosce il diritto collettivo alla terra per i nativi, ribadito dalle ultime guide volontarie sviluppate dalla Fao, ma soprattutto dalla Convenzione Ilo 169, adottata nel 1989 dall’Organizzazione internazionale del lavoro. Ratificata dai governi, la Dichiarazione diventa automaticamente legge. «Anche se diversi stati riconoscono il diritto collettivo alla terra, in alcuni paesi non esiste però riconoscimento dei popoli indigeni».

Dali Angel è venuta a rappresentare la Rete dei giovani indigeni dell’America latina, un’organizzazione di base comunitaria che, in Messico, ha il suo fulcro nella regione di Oaxaca. Una zona in cui i giovani si battono a fianco dei maestri contro la cosiddetta riforma educativa di stampo neoliberista promossa da Enrique Peña Nieto, che peggiora fortemente le condizioni di lavoro.

Nel 2006, la lunga lotta della «comune di Oaxaca» ha alimentato le proteste contro la frode elettorale di Felipe Calderon, a scapito del progressista Manuel Lopez Obrador. Nel sud-est messicano (Chiapas, Oaxaca, Guerrero, Michoacan), indigeni, contadini poveri e maestri sono i settori più combattivi e pagano – soprattutto le donne – un prezzo altissimo.

La scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa (Guerrero) ha «tolto la maschera allo stato messicano che – dice Dali – firma tutti i trattati internazionali, ma applica solo quelli imposti dall’Fmi».

Qual è il bilancio dei giovani indigeni latinoamericani per questo decennale?

Sono stati fatti passi avanti, ma la strada è ancora in salita: i difensori dei popoli indigeni continuano a essere uccisi e perseguitati, dobbiamo continuare la lotta delle nostre nonne e delle nostre madri. Abbiamo ottenuto molto nei paesi in cui c’è stato un vero cambiamento, come in Bolivia, in Venezuela o in Ecuador, ma in Messico purtroppo, no.

Per questo, cerchiamo di far sentire la nostra voce unendo le proposte a livello internazionale perché siano riconosciute e riprese dalle varie istanze, per avere più forza e rappresentatività nei territori.

La vostra è un’azione efficace? Non temete di farvi addomesticare?

Siamo coscienti del rischio. Non andiamo in giro per farci fotografare, per folklore. Vestire in abiti tradizionali è una rivendicazione di identità per dire: guardateci, siamo qui, siamo sopravvissuti e abbiamo le idee chiare su come andare avanti. Esigiamo rispetto. Niente ci è mai stato regalato, quel che abbiamo imparato lo dobbiamo ai tanti sacrifici di chi ci ha preceduto. Dobbiamo anche combattere le false rappresentazioni.

Sono stata in una riunione a Panama dove si parlava dell’importanza di aiutare i giovani indigeni allo sviluppo. C’era chi diceva che vogliamo lasciare i nostri territori per andare in città, e perciò bisogna fare incontri con le imprese per generare impiego. È un discorso-trappola, dietro cui si nascondo i furti delle terre, la depredazione dei nostri territori, l’azzeramento della nostra identità.

I grandi media si occupano di diffondere questi falsi modelli. Abbiamo presentato una ricerca sull’aumento degli episodi di autolesionismo e dei suicidi fra i giovani indigeni che non si accettano per quello che sono. Con l’Ifad cerchiamo di fare un discorso diverso. L’obiettivo non è quello di creare altre mafie dei convegni, ma di creare legami e unità e poi tornare ai nostri territori.

Per il nostro funzionamento, abbiamo un codice etico da rispettare. Così, quando un senatore ci ha proposto di finanziarci, abbiamo rifiutato perché il suo partito aveva fatto solo danni al popolo. E abbiamo rifiutato l’aiuto del governo a interim del Guerrero, dove sono scomparsi i nostri 43 compagni.

Come avete vissuto quella vicenda?

Con molta tristezza, rabbia e impotenza, perché non si è fatta giustizia. Uno degli scomparsi era di Oaxaca. Abbiamo accompagnato il papà a New York, esigendo il pronunciamento dell’Inviato speciale per la gioventù, che non c’è stato. Sono persone umili, che appena parlano lo spagnolo. La Procura generale ha negato addirittura la versione della Corte interamericana. Penso che il colpevole sia lo Stato, l’esercito. L

e Scuole rurali sono molto combattive, formano – anche a livello politico – ragazzi che non hanno risorse. Il governo vuole creare istituti tecnici senza percorso universitario, per avere manodopera a basso costo. Propendo per l’ipotesi che in quella zona si volesse impiantare una miniera e per questo c’era bisogno di stroncare la lotta. Con la scomparsa dei 43, il governo ha perso la maschera di quello che ratifica tutti i trattati, mentre rispetta solo quelli neoliberisti. Sulla carta, i diritti dei popoli indigeni esistono, ma non è un caso se la rivolta zapatista vi sia stata nel 1994, quando è stato firmato il Nafta.

E adesso? Cosa succederà con Trump?

Nel mio villaggio di San Juan Mixtepec, sono molti i giovani che sono migrati negli Usa e che sostengono così la famiglia. L’altro giorno, il presidente è andato a ricevere all’aeroporto un gruppo di messicani deportati da Donald Trump. Quasi tutti avevano tratti indigeni, quasi tutti pensavano di tornare negli Usa perché da noi non hanno speranze.

Nieto è però più preoccupato che Trump rompa il Tpp – il trattato transpacifico- come se quel tipo di accordi ci avesse portato benessere e non devastazione. Da noi c’è un parco eolico, ma quell’energia serve alle grandi imprese, non alle comunità. Il popolo Zapoteca sta resistendo da anni per evitare l’entrata delle grandi imprese. Il governo deve smetterla con le riforme strutturali come quella energetica.

Con la questione del muro di Trump sta distogliendo l’attenzione dalle proteste per l’aumento della benzina e contro la riforma energetica: se aumenta la benzina, aumenta tutto. E così vediamo finte manifestazioni di nazionalismo da parte di personaggi come Ficente Fox… E il miliardario Slim, perché non investe in Messico rispettando i diritti? In questo scenario preoccupante, dobbiamo organizzarci per mantenere le nostre forme di autogoverno che ci hanno permesso di sopravvivere.

La sua è un’organizzazione di donne.

Sì, funzioniamo come reti di reti, siamo quasi tutte donne, alcune non hanno studiato ma hanno molta esperienza di vita. Abbiamo fatto un incontro in Finlandia, a Ginevra, il 13 e 14 marzo una Commissione giuridica di donne indigene andrà a New York. Abbiamo sostenuto le donne nelle proteste contro Trump. L’organizzazione Mujeres indigenas por Ciarena, nelle reti internazionali si impegna soprattutto nel settore agrario, per i diritti della Madre terra.

Le donne indigene svolgono un ruolo fondamentale nella difesa del territorio, di fronte alle violenze se la cavano senza aiuto dello Stato. Il nostro osservatorio contro la violenza ha sbugiardato i dati del governo a livello internazionale. Una nostra compagna e il figlio sono stati minacciati e hanno ottenuto protezione grazie all’aiuto di altre organizzazioni di donne a livello internazionale.

Sosteniamo la campagna Ni una menos. Abbiamo incontrato le donne lesbiche brasiliane. Mi hanno chiesto: quando hai capito di essere indigena? Ho risposto, a scuola quando mi prendevano in giro per come mi vestivo. Quando mia madre dormiva con un machete sotto il cuscino perché cercavano mio padre per ucciderlo. Abbiamo sempre lottato. Siamo una famiglia di attivisti, uno dei miei fratelli, negli Stati uniti, è avvocato per i diritti degli indigeni migranti. La discriminazione accomuna. Non abbiamo fiducia nel sistema dei partiti. In Messico, solo sovvertendo la piramide, le cose cambieranno.