Liturgia rispettata, l’accordo intravisto lunedì e raggiunto con calma ieri mattina è stato annunciato però nel pomeriggio per rassicurare le truppe contendenti: c’è stata una trattativa vera. A condurla il ministro per gli affari europei Amendola, Pd, accompagnato dalla sottosegretaria Agea e dal ministro per i rapporti con il parlamento D’Incà, entrambi 5 Stelle. Il testo della mozione che oggi approverà le comunicazioni di Conte prima alla camera e poi al senato è stato condiviso dai capigruppo dei quattro partiti in coalizione. I più riottosi, grillini e renziani, sono riusciti anche a marcare il territorio. I primi convocando una riunione serale dei gruppi parlamentari che ha discusso e ovviamente ratificato l’accordo. Italia viva invece, nonostante tutto, ha deciso di non firmare la mozione di maggioranza. Lo farà oggi, dopo aver ascoltato in aula il presidente del Consiglio: che non si rilassi troppo. Anche se per come si sono messe le cose Conte può raggiungere persino al senato, lì dove sarebbe dovuta esplodere la crisi annunciata, la maggioranza assoluta dei sì. La suspense, per chi ci ha creduto, è sciolta: i parlamento italiano dà il via libera alla riforma del Mes.

Non è quello definitivo, del resto questi psicodrammi si nutrono di penultime occasioni. Non lo è dal principio. L’iter della modifica del Meccanismo di stabilità europeo (Mes per noi, Esm in inglese) individua il Consiglio europeo di domani e venerdì come seconda tappa per ratificare la riforma dello strumento più dibattuto (in Italia) e meno usato (in Europa). Dopo l’Eurogruppo del 4 dicembre al quale il ministro Gualtieri ha già speso il sì del nostro paese. A gennaio i governi firmeranno formalmente l’accordo, poi toccherà ai parlamenti nazionali ratificarlo nel corso del 2021. La principale novità, l’introduzione anticipata del common backstop (garanzia di seconda istanza per le crisi bancarie), scatterà infatti dal 2022.

Nella mozione italiana tutto questo è diventato l’impegno a «verificare l’avanzamento dei lavori» in vista della ratifica parlamentare. Come a subordinare, ancora una volta, il sì veramente definitivo alla richiesta dei 5 Stelle di «costruire una nuova stagione dell’integrazione europea». La parola d’ordine che ritorna a distanza di un anno esatto dal dicembre 2019, quando il governo giallorosso aggirò per la prima volta l’ostacolo Mes in parlamento, è «pacchetto». La mozione dice che «questa riforma (del Mes, ndr) non può considerarsi conclusiva, vista la logica di pacchetto», cioè le altre modifiche alle regole europee di cui si discute da tempo. Il problema è che due delle tre modifiche invocate – quella del patto di stabilità (ora sospeso causa Covid) e quella dell’unione bancaria (Edis, superata in corsa proprio dal più modesto anticipo del backstop) – sono bloccate da anni al punto di partenza. E la terza richiesta, il superamento del carattere intergovernativo del Mes, è ancora nella fase dei ragionevoli auspici, contraddetti proprio dalla riforma che il parlamento decide oggi di mandare a vanti.

Come sempre le formule involute tipiche dei compromessi – nella mozione non si dà mandato al governo di approvare la riforma, ma di «finalizzare l’accordo politico raggiunto» – coprono la volontà prevalente nei gruppi di non aprire la crisi. Con il recupero dei dissidenti 5 Stelle, anticipato ieri dalla senatrice Lezzi, i voti mancanti tra i grillini si conteranno sulle dita di una mano. Il governo ha a portata di mano quella quota 161 – la maggioranza assoluta al senato – che può dare l’illusione di una coalizione in buona salute (se non lo raggiungerà sarà a causa dei senatori in quarantena obbligatoria).

Non mancheranno i voti dei renziani, anche se Italia viva ha detto di voler ascoltare da Conte parole chiare sulla possibilità di accedere al Mes “pandemico” (quello che non prevede condizionalità in entrata e vincola i 36 miliardi di prestiti alla spese per la sanità). I 5 Stelle vogliono ascoltare l’intenzione opposta, cioè nessuna possibilità di accedere a quello strumento, e di fatto ci stanno arrivando a suon di rinvii. Conte prudentemente glisserà. Avendo peraltro da pensare all’ostacolo più grande, più difficile da aggirare: la governance del fondo di ripresa e resilienza.