Il Comune di Bologna vuole vendere parte delle sue azioni di Hera, la multiutility a controllo pubblico che in Emilia-Romagna, e non solo, gestisce acqua, luce, gas e rifiuti. E a Bologna scoppia il caso politico, con i sindacati sulle barricate pronti a lanciare l’allarme privatizzazione.

La vendita, ha annunciato il sindaco Virginio Merola, servirà per abbattere il debito comunale e a finanziare alcuni progetti cittadini legati al welfare. «Aiuterò le giovani coppie e l’edilizia scolastica – ha spiegato il primo cittadino alla guida di una giunta Pd – E stavolta non voglio menate sulla privatizzazione dell’acqua perché Hera resta sotto il controllo pubblico».

Le «menate», come le chiama, le stanno invece esplicitando e a gran voce i sindacati. «La vendita di azioni Hera è una privatizzazione, ogni altra definizione è pura propaganda», ha tuonato l’Usb. A schierarsi con tutto il suo peso è anche la Cgil dell’Emilia-Romagna, che lancia l’allarme: «Questa operazione porterà Hera e il suo gruppo dirigente a concentrarsi sul dare dividendi, oggi utilizzati dai comuni per la spesa sociale, ai soggetti privati che rischiano di diventare maggioranza. A quel punto Hera si strutturerà sempre più in azienda di forma commerciale e finanziaria: per fare più utili si implementeranno gli appalti con la finalità di ridurre il costo del lavoro, aumentando le marginalità. Si cercheranno i risparmi sul costo del lavoro per dare utili ai soggetti della finanza, già presente nella compagine societaria con i grandi fondi internazionali».

Si vedrà se la maggioranza Pd che sostiene Merola voterà compatta sulla vendita delle azioni che, ha però sottolineato il primo cittadino, rappresentano un pacchetto azionario molto contenuto (si parla di 15 milioni di euro come potenziali entrate) e comunque svincolato dal patto di sindacato che assicura Hera in mani pubbliche.

Sullo sfondo resta la direzione, certificata dai numeri: la quota pubblica di Hera negli ultimi anni è passata dal 60% al 51, e poi al 49,6%. A sollevare la questione sono anche i referendari di Acque Bene Comune, che fanno notare come vendere azioni per investire e abbattere il debito sia miope, perché così «non si affronta il nodo dello strangolamento finanziario dei comuni e ci si piega alla svendita del patrimonio per galleggiare, senza progettualità strategiche condivise».

Il caso si inserisce nella situazione politica dell’Emilia-Romagna, terremotata dal voto del 4 marzo e dalla scorsa tornata amministrativa. Imola, alle porte di Bologna, è passata dal Pd all’M5s, movimento che non ha mai fatto mistero di voler voltare pagina per quanto riguarda Hera e la gestione dei servizi pubblici. L’idea potrebbe essere quella di creare una società pubblica ad hoc per gestire la raccolta rifiuti, portando questo business fuori dall’orbita Hera. Un’ipotesi che la Cgil avversa, «perché se l’esempio fosse seguito da altre città emiliane si metterebbe in pericolo la stessa Hera con i suoi quasi 5 mila dipendenti».

Sul punto Acqua Bene Comune non pare allineata al sindacato. Dopo aver tentato per anni di imprimere una svolta nella gestione di Hera, i referendari danno la partita quasi per persa. «Hera è irrimediabilmente schiacciata dalle logiche del mercato», ragionano. L’unica possibilità sembra creare aziende pubbliche esterne al perimetro della Spa per gestire i servizi di interesse collettivo. Una partita che passerà per due punti di svolta: le elezioni regionali del 2019, che per la prima volta vedranno il Pd a rischio, e la scadenza dell’affidamento del servizio idrico bolognese nel 2021.