Il giorno dopo il sisma elettorale che ha terremotato la socialdemocrazia, la Germania si risveglia circondata dai muri che spaccano in due il Paese. Dall’invalicabile barriera di consenso che separa la «nuova» Cdu di Annegret Kramp-Karrenbauer dai «vecchi» elettori nostalgici di Angela Merkel, al profondo fossato che divide la Spd di Andrea Nahles e il Volk di operai, studenti e disoccupati più o meno cronici. Fino all’inquietante cortina di ferro eretta da Alternative für Deutschland, capace di dividere la Germania Ovest dai Land della ex Ddr esattamente come ai tempi della Guerra Fredda.

Tutto mentre la crisi di governo pare pronta a deflagrare da un momento all’altro senza che nessuno, nella Grande coalizione come tra i banchi dell’opposizione, riesca anche solo a immaginare un qualsivoglia «piano B».

Di fatto la Bundesrepublik è squarciata a metà; temporalmente appesa tra il passato che scorre troppo lento e il futuro che bussa e si annuncia ma stenta ancora ad arrivare.
Così, dalla verde Berlino all’azzurra Monaco, dalla nerissima Dresda a Brema appena decolorata dal rosso che resisteva fin dal 1946, non resta che provare a suturare le ferite politicamente letali. Non a caso «emorragia» e «infezione» sono davvero i termini utilizzati per definire i voti scomparsi, o peggio, trasformati in consensi contrari.

Ne hanno discusso ieri Merkel e i tre leader del governo convocati all’ultimo piano della cancelleria a mezzogiorno in punto. Parola d’ordine: rilancio dell’azione della Groko sull’onda del boom ecologista, ovvero delle proteste contro il cambiamento climatico che per i tedeschi (al contrario del resto d’Europa) è il primo problema, alla faccia della recessione industriale e della mitologica emergenza-migranti.

In pratica per la coalizione socialdemocristiana si tratta, né più né meno, di sussumere i punti salienti del programma dei Verdi, un po’ come ai tempi dell’uscita dal nucleare.
Fuori dalla «lavatrice» (soprannome della cancelleria di Berlino) invece si consumano le partite politiche personali. A partire dall’incerto futuro di Nahles, rea della batosta Spd alle Europee quanto del clamoroso sorpasso della Cdu nell’ex roccaforte Brema. «Non ho alcuna intenzione di dimettermi» taglia corto la segretaria, pressata dalla vecchia guardia quanto dai Giovani socialisti guidati dal «ribelle» Kevin Kuhnert. Poco importa se nella fascia di età 18-30 anni i socialisti abbiano intercettato appena un voto ogni dieci (contro il 30% dei Grünen) e se la Spd da Volkspartei è diventata un partito semi-regionale.

Percorso a ostacoli: come la Cdu-Csu di Akk che ha mantenuto lo scettro di leader del primo partito (con il 6,4% dei voti in meno) ma non è riuscita a spingere oltre la soglia di sicurezza la candidatura dell’aspirante presidente Ue Manfred Weber. Il cui destino, adesso, pare appeso alla sola capacità di mediazione della cancelliera Merkel con il premier francese Macron che contesta l’«automatismo» imposto da Berlino.

Problema, peraltro, avvertito solo in metà della Repubblica federale. Perché il profondo Est è sempre più nelle mani di Afd, che non ha sfondato all’Europarlamento solo grazie al magro risultato raccolto nella Germania-Ovest (tra il 5 e l’8%) .

Le urne orientali sanciscono invece il 30% dell’ultra-destra in Sassonia, il 21% in Brandeburgo con percentuali bulgare nelle città sulla linea di confine con Polonia e Repubblica Ceca. Non più solo nelle povere circoscrizioni di campagna, tra ciò che rimane della «terra delle miniere» o nei municipi che detengono il record di aggressioni ai migranti. Ma anche e soprattutto nelle aree metropolitane dove il Pil pro-capite supera abbondantemente i 30 mila euro e i livelli di disoccupazione risultano al minimo storico.