Lugansk e Donetsk, città in ginocchio. Da giorni senza elettricità e acqua corrente. Centri importanti dell’Ucraina orientale, smembrati, con la popolazione terrorizzata, nascosta, alla ricerca di cibo o in fuga. Per chi rimane, le alternative sono due: rischiare la vita sotto i colpi dei bombardamenti, oppure patire la fame e una vita d’inferno; persone catapultate fuori da una quotidianità mai così preziosa, come quando si palesa la constatazione della sua messa a soqquadro.

Le condizioni economiche del paese sono devastate; chissà quando si faranno i conti finali, a quale macabro riepilogo di morti assisteremo, quante saranno le vittime civili (ad ora secondo i dati dell’Onu sono almeno oltre un migliaio) quanti i soldati morti, quanti gli edifici da ricostruire, le vie da risistemare e le vite da ripensare. Ieri un bombardamento ha di nuovo ucciso un bambino e la sua famiglia. Le immagini sono drammatiche, come in ogni guerra, non solo in Ucraina. Ma per quanto si tratti della parte orientale del paese, tutto accade vicino a noi, all’Europa; anzi proprio in quella terra che dovrebbe costituire un ponte tra Vecchio continente e Asia.

Regione da ricostruire, e quale regalo migliore se non un prestito europeo promesso dalla cancelliera tedesca? Senza che si faccia menzione, naturalmente, sulle cause della distruzione: una guerra nata da una «rivolta» su cui l’Europa e la Nato hanno soffiato abilmente. Una vita fa, ormai. E così Merkel si può permettere di arrivare a Kiev come una sorta di salvatrice della patria («il nostro avvocato in Europa», ci ha scherzato su quel burlone di Poroshenko) annunciando 500 milioni di euro dall’Unione europea, «per la ricostruzione del Donbass», distrutto dai mortai e dai bombardamenti dell’esercito ucraino, cui hanno risposto i ribelli delle regioni orientali, presumibilmente supportati, di sicuro all’inizio, da Putin.

E lui, lo zar di Mosca, ieri ha posto il suo sigillo sulla giornata. Forse in onore della visita di Merkel a Kiev, ha fatto tornare indietro gli oltre 200 autotreni contenenti materiale di aiuto alla popolazione delle regioni orientali. Quella che per Kiev, Nato ed europei, era stata annunciata come «l’invasione russa», è durata come un ghiacciolo nel deserto. Ci sono dubbi, naturalmente, su cosa contenessero quei tir, ma sicuro le popolazioni del Donbass avranno gradito generi di prima necessità.

Del resto anche gli osservatori dell’Osce hanno annunciato il ritiro, senza denunciare la presenza a bordo dei camion, come da un moderno cavallo di Troia, di soldati russi pronti a sparare. Putin ha ottenuto la Crimea e una situazione generale in Ucraina, che al momento allontana lo spettro di un’adesione alla Nato. Probabilmente gli basta, e gli va bene così. Non ha bisogno di un atto unilaterale, capace di stravolgere equilibri sottili.

Proprio la Merkel, in un gioco di messaggi incrociati, pare avere capito l’antifona. A Putin che fa tornare i convogli in Russia, ha risposto sottolineando che non sono all’ordine del giorno nuove sanzioni contro la Russia. La questione, ora, è diplomatica da un lato, concentrata sul prossimo incontro a Minsk tra Russia e Ucraina, e militare dall’altro, con l’esercito di Kiev impegnato in una dura offensiva, che non sembra però potersi concludere a breve.

I messaggi di Merkel hanno anche tratteggiato una possibile linea europea per un negoziato – se mai sarà possibile – di pace. La cancelliera tedesca ha ricordato che «bisogna essere in due per avere successo. Non si può fare la pace da soli. Mi auguro che le discussioni con la Russia portino alla pace». Merkel, ricordando il summit che si terrà martedì a Minsk, cui parteciperanno il presidente ucraino, quello russo e rappresentanti dell’Ue, ha precisato che «le proposte sono sul tavolo, bisogna tradurle in azione».

Non sarà possibile tornare alla calma nell’est del Paese, ha concluso la cancelliera, senza un migliore controllo del confine russo-ucraino, anche «con l’utilizzo dei droni». Merkel ha infine sottolineato come l’unità del paese sia fuori discussione, parlando di «decentramento». Ha così corretto un suo funzionario che aveva parlato di «federalismo», ovvero il piano russo per la fase successiva. Un favore lessicale a Putin, cui Merkel ha subito rimediato.