In quella fotografia è ventenne e sensuale, nuda e con il palmo della mano sinistra nero di inchiostro.

Proprio Man Ray l’aveva ritratta così nel 1933, lei, Meret Oppenheim, vicino a un torchio da stampa, che nascondeva in parte le linee del suo affascinante giovane corpo. Modella e musa, poi artista, curiosa e affamata di conoscenza e fortemente attratta dalle ricerche e dalle sfide artistiche e di senso del Surrealismo, Meret Oppenheim viene raccontata da una mostra al MASI di Lugano (Museo d’Arte della Svizzera Italiana), che durerà fino al 28 maggio: “Meret Oppenheim, Opere in dialogo da Max Ernst a Mona Hatoum”.

Figura di rilievo nel mondo dell’arte del Novecento, fu da subito attratta dalla grande lezione degli artisti Surrealisti e Dada, con cui era entrata in contatto e con cui aveva stretto amicizia da quando si era trasferita a Parigi negli anni Trenta. Il suo fascino e la sua personalità coraggiosa l’avevano portata ad essere vicina a molti artisti, molto più anziani e ritenuti grandi Maestri. Più di cento opere ripercorrono l’intero suo percorso artistico, partendo dagli anni Tenta a Parigi, anni in cui stringe amicizia con Man Ray, Marcel Duchamp, Max Ernst, Alberto Giacometti, René Magritte, fino ad arrivare alla sua esperienza più matura e non figurativa degli anni Settanta e Ottanta. Meret Oppenheim risulta, attraverso le tante opere qui esposte, come un’artista che aveva autonomamente avvicinato i temi del surrealismo di Breton, in cui aveva trovato una sensibilità simile alla propria. I tanti contatti fatti a Parigi, e poi nel mondo artistico internazionale, avevano fatto in modo che Meret potesse ideare e costruire una sua personale visione sull’arte. Le opere in mostra riflettono e scardinano le aspettative concettuali e visive della realtà, facendo in modo di arrivare a una sua personale ricerca. Racconterà il mondo e le idee tramite “semplici” oggetti, con le tazze, quelle unite insieme, o anche, e forse soprattutto “Le déjeuner en fourrure”, la colazione in pelliccia, una tazza rivestita di pelliccia, icona di lusso nel Novecento.

E poi con i boccali, le scarpe, anche quelle legate in punta, i guanti. Come se tutti questi oggetti rappresentassero entità slegate e indipendenti, e avessero invece una vita propria. I guanti per esempio sviluppano, in modo indipendente, vene e capillari. Troviamo anche, copertina del catalogo, la fotografia di una sua radiografia al cranio (1964) , quale fosse un suo lascito per il futuro. Nel 1980 raffigurerà il proprio volto, invecchiato ma sempre affascinante, tatuato come quello di una vecchia sciamana indiana. Un video ce la fa poi vedere, sempre in tarda età, mentre racconta – in tedesco – la sua arte.

C’è stato anche il momento dei personaggi fiabeschi, quelli avvolti dalla leggenda del mito e dei suoi significati, ispirati forse anche alla psicologia Jungiana che aveva conosciuto bene. La donna si fa serpente, di pietra, uccello, con tutti le metafore che queste rappresentazioni vogliono significare. Autoritratti e ritratti di colleghi le danno poi la facoltà di raccontare verità forse mai dichiarate, dando agli artisti, soprattutto quelli della cerchia Surrealista, anche attraverso travestimenti, identità metaforiche di altri aspetti del sé. Divisa in diverse sezioni, la mostra prosegue con la parte dedicata a volti fantastici e a maschere create da Meret, e anche da alcuni colleghi, come dipinti e come maschere per i carnevali di Berna e Basilea. In mostra, oltre a opere anche di amici colleghi a cui si è ispirata dagli anni parigini, ci sono poi anche artisti contemporanei, a cui ha rimandato le sue suggestioni per portarle fino alla seconda metà del Novecento, come Robert Gober, Mona Hatoum e anche Birgit Jürgenssen, che si sono ispirati alla sua grande lezione.