«L’ultima versione della Farmacopea cinese per il 2020 non comprende i pangolini, in quanto specie minacciata; questi mammiferi non saranno più usati nei preparati tradizionali». La notizia del 10 giugno sul Global Times, tabloid ufficiale cinese, ha aperto una finestra di speranza per una specie perseguitata: «La decisione arriva pochi giorni dopo l’annuncio, da parte dell’Amministrazione di Stato per le foreste e i pascoli, che il livello di protezione del pangolino cinese è salito dalla seconda alla prima classe»: quella del panda.

SECONDO IL WWF, siccome la maggior parte della domanda di pangolino proviene dalla medicina tradizione cinese, che provoca un commercio illegale su ampia scala, «la svolta ha di certo un grande impatto». Centinaia di migliaia di questi animali (spesso provenienti dall’Africa) sono consumati in Asia, per le loro scaglie e la loro carne. La Cina ha iniziato a mettere al bando la caccia al pangolino (la cui popolazione nel paese dagli anni 1990 si era ridotta del 90%) nel 2007; nel 2018 ha vietato l’importazione degli animali e delle loro parti. Ma il contrabbando è continuato. Il commercio poi è stato completamente vietato nel 2016 dalle 183 nazioni che aderiscono alla Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (Cites).

Gli unici rappresentanti viventi dell’ordine dei Folidoti (unica famiglia dei Manidi, unico genere Manis) sono da tempo oggetto di un traffico di enormi proporzioni che coinvolge 50 paesi e che li ha portati sull’orlo della fine. L’Unione internazionale per la conservazione della natura – Iucn – classifica come «in pericolo critico di estinzione» tre delle loro otto specie, fra le quali il pangolino cinese (Manis pentadactyla); altre tre sono «in pericolo», le altre due comunque «vulnerabili».

MAMMIFERI TIMIDI, lenti come bradipi mentre si arrampicano con il piccolo sulla schiena, sdentati ma provvisti di una corazza a scaglie per difendersi dai predatori nelle foreste e nelle savane di Africa e Asia: i pangolini hanno tutto per suscitare tenerezza e protezione. Eppure hanno dovuto aspettare questo distopico 2020 all’insegna della pandemia Covid-19. Improvvisamente il pangolino si è trovato al centro di un giallo: l’ipotesi è che il primo contagio umano si sia verificato in un mercato, a Wuhan, che vendeva anche animali selvatici, e che l’ospite intermedio nel salto (spillover) del virus dal pipistrello all’essere umano sia stato proprio il mammifero con le scaglie. Nulla è ancora confermato, ma la shock therapy ha funzionato. E non solo per il pangolino.

I WET MARKETS cinesi sono ormai famosi come l’Urlo di Munch. Molti sono semplicemente mercati del fresco, soprattutto vegetale, un’alternativa ai cibi industriali e alla grande distribuzione; ma quelli incriminati vendevano (fino al divieto governativo) anche animali selvatici vivi, tenuti in gabbie promiscue e macellati sul momento. L’Organizzazione mondiale della sanità, ribadendo che «i governi devono mettere al bando con rigore il commercio e la vendita di animali selvatici a scopi alimentari», sta sviluppando linee guida per l’igiene nei wet markets (senza selvatici). Ma non basta.

LA CITTÀ DI WUHAN ha vietato per i prossimi 5 anni il consumo alimentare di tutta la fauna selvatica di terra, anche allevata, e delle specie acquatiche in pericolo. Vietata la caccia – salvo quella regolamentata per il controllo delle popolazioni animali. Gli usi (e l’allevamento) per scopi extra-alimentari, come per la medicina, non saranno proibiti ma ci saranno più controlli.

A livello nazionale, già a febbraio, la Cina aveva vietato il commercio e il consumo della carne «selvatica», nei mercati e on-line. Era accaduto anche nel 2003, in occasione dell’epidemia Sars, ma solo fino alla fine dell’emergenza. Nella distopia globale di questo 2020, la decisione dovrebbe diventare permanente. In aprile il governo ha stilato l’elenco degli animali che possono essere allevati per la carne escludendo (oltre a cani e gatti) i selvatici. Siccome i rischi sanitari sono legati soprattutto a mammiferi e uccelli, i rettili e gli anfibi (allevati in gran numero, si pensi alle tartarughe) sembrano esclusi dal bando.

GRAZIE A FONDI GOVERNATIVI, le province di Hunan e Jiangxi offrono adesso compensi in denaro agli allevatori di 14 specie (per ora) come istrici, serpenti, ratti del bambù, zibetti e oche selvatiche, per aiutare la riconversione in particolare verso coltivazioni vegetali sia a scopo alimentare che medicinale. Comunque, questo sostegno pubblico è, secondo la Humane Society, organizzazione internazionale per la protezione degli animali, in linea con «un crescente interesse in Cina per gli alimenti vegetali. Del resto dal 2016 le linee guida nazionali raccomandano una riduzione del 50% nel consumo di carne». Lo sguardo deve spaziare al di là di Cina e Asia.

IL TRAFFICO DI SPECIE ESOTICHE protette è un business planetario. La stessa Italia, oltre al fenomeno del bracconaggio al proprio interno, è un paese di passaggio di animali (o loro parti) trafficati verso Oriente. E non basta: settimane fa il ministro olandese dell’Agricoltura ha dichiarato plausibile che un lavoratore sia stato contagiato dai visoni in un allevamento da pelliccia, un comparto residuale ma tuttora esistente anche in Italia. Anche in Cina, l’allevamento di selvatici a scopi non alimentari non è vietato.

«La parola chiave è “contatto”: dobbiamo limitare o meglio ancora evitare quello con la fauna selvatica, sia essa in natura o allevata», spiega l’associazione Lav, che chiede: stop al commercio di animali esotici sia allevati che catturati in natura; stop alla riproduzione e al commercio di animali allevati in cattività; repressione del fenomeno; divieto di importare prodotti contenenti derivati di animali esotici e selvatici.

LA POSTA IN GIOCO – la prevenzione dai rischi di zoonosi – è molto alta. Riassume Humane Society: «I paesi con mercati di fauna selvatica esistenti devono vietare commercio interno e internazionale, trasporto e consumo per qualunque scopo (alimentare, medicinale, per abbigliamento, da compagnia, ecc), compreso l’allevamento in cattività a fini commerciali». Per tutti gli altri paesi, si tratta di «vietare commercio e import-export di animali selvatici, in particolare mammiferi e uccelli». E dappertutto avviare campagne educative.

È TUTTAVIA CRUCIALE creare altre fonti di reddito. La segretaria esecutiva della Convenzione Onu per la biodiversità (Cbd), Elizabeth Maruma Mrema, originaria della Tanzania, ha ribadito di recente l’importanza di «vietare in tutto il mondo i mercati di animali selvatici vivi, come hanno fatto Cina e alcuni altri paesi» e di «controllare la vendita e il consumo di specie selvatiche». Ma ha aggiunto: «Tante comunità rurali povere, soprattutto in Africa, dipendono dagli animali selvatici per la sopravvivenza. Senza alternative, il pericolo è che aumenti il prelievo illegale».