Il poncho rosso, i capelli raccolti in uno chignon, la chitarra e quella voce che ti scava dentro l’anima pronta a raccontarti di passioni, dolori e amori. Spesso infelici. Tutto di Chavela Vargas, divenuta famosa prima in Messico tra gli anni Trenta e Quaranta e poi nel mondo, sembra soggetto ideale di una storia da adattare per il grande schermo. Ad Acapulco, che nei ’60 era il fulcro della cultura, della buona società e della politica, ha frequentato le celebrità e vissuto liaison con Frida Kahlo e Ava Gardner. Chavela era anticonvenzionale: se la canzone messicana imponeva donne tutte crinolini, scollature provocanti, lei rispondeva con pantaloni da lavoro e mise decisamente maschili. Era lesbica, ma in quella società machista non si poteva dire apertamente. Lo ammetterà pubblicamente solo negli anni Novanta. A questa esistenza bellissima quanto tormentata, Catherine Gund e Daresha Kyi hanno dedicato un bel documentario, Chavela, secondo premio per il pubblico nella sezione Panorama alla Berlinale e a Milano scelto come evento inaugurale del Mix festival che si conclude questa sera. Daresha Kyi è stata ospite della manifestazione e ha accettato di rispondere ad alcune domande.

 
Perché scegliere Chavela Vargas come soggetto per un documentario?
Ho voluto raccontare la figura di Chavela non solo per la sua grande voce ma per la sua forza, il coraggio e la sua vita sorprendente. Onestamente dove si può trovare un personaggio che passa dalla fama estrema alla povertà? Che dorme agli angoli di una strada intontita sotto gli effetti dell’alcol e poi torna alla ribalta, un ritorno esplosivo come musa di Almodovar, a tenere concerti a Parigi, alla Carnegie Hall, Madrid. Mi ha poi colpito la sua integrità morale, non chinava mai la testa ed è riuscita a vivere tra mille difficoltà la sua omosessualità.

 
Quali sono stati i maggiori ostacoli nella realizzazione del film?
Prima di tutto un problema di finanziamenti (ride, ndr), ma la difficoltà reale è stata mettersi in contatto con le donne che avevano avuto una relazione con lei. Chavela era molto riservata, e se si eccettuano i nomi eccellenti di Ava Gardner e Frida Khalo delle altre non si sapeva nulla; per rintracciarle abbiamo ricevuto confidenze da amici o da chi frequentava il suo giro. E così è stato con Marcela Rodrigues che era stata anche la sua chitarrista nei primi tre anni di tour dopo la sua rentrée. Più complicato è stato trovare Alicia Helena, un avvocato, fondamentale nella vita di Chavela perché grazie a lei è riuscita finalmente a uscire dalla dipendenza dall’alcol. Avevamo previsto di chiudere il film nel dicembre 2015 e invece siamo state costrette a rimandare perché Helena stava organizzando una conferenza ed era indaffaratissima. Anche con Almodovar non è stato semplice, quando lo abbiamo contattato era molto nervoso per via delle riprese di Julieta. Però poi ci ha raccontato gli anni spagnoli di Chavela con molta dolcezza e confidato che uno dei suoi grandi tormenti è di non aver potuto assistere al suo funerale.

 
Chavela era una donna complicata, molti degli intervistati sottolineano il fatto che amasse la solitudine. Lei stessa affermava che solo la solitudine le ha permesso di essere libera. Ma è realmente così?
Chavela diceva di amare la solitudine perché cercava di proteggere se stessa, era una donna vulnerabile ferita durante l’adolescenza da vicende familiari. La separazione dei genitori è stata per lei traumatica così come il fatto di essere stata costretta ad andare a vivere dagli zii. E poi l’ostracismo della gente contro quella ragazzina ribelle, «strana»… Ecco, quella bambina fragile che era se l’è portata sempre dentro e ha quindi messo davanti a sé come una corazza la volontà di non dipendere da nessuno, per non essere nuovamente ferita.

 

18VISIONIfotopiccola_16505990_78a1b63e

 
Almodovar definisce l’approccio alla scena della Vargas quasi ieratico, la chiama «sacerdotessa»…
Sono convinta che Chavela avesse come un alone magico intorno a sé, aveva grande carisma e magnetismo e sin dall’inizio ha sedotto molta gente. Riusciva a trasmettere energia: quando Alicia Helena la incontra per la prima volta ne resta catturata all’istante. Però non era una donna egoista, dava e riceveva, sul palco si inebriava dell’amore che le arrivava dal pubblico.

 
Chavela crea il suo personaggio in una società machista, la società messicana dell’epoca. Un mondo misogino dove una lesbica non aveva posto.. Uno dei momenti più importanti della sua carriera è quando decide di indossare pantaloni al posto di gonne e abiti provocanti.
Sì, fa parte del suo mito ma ne dimostra anche la sua autenticità. Lei non finge, non mette maschere, indossa i pantaloni perché li portava sin da quando era una ragazzina. Piuttosto Chavela ha cambiato la musica messicana: le sue interpretazioni delle cosiddette «ranchero songs», sono rivoluzionarie. Le composizioni di José Alfred Jiménez (suo grande amico, ndr) , Agustin Lara erano estremamente popolari e si cantavano ovunque. Lei le trasformava rendendole personali. Solo le grandi come Edith Piaf, Nina Simone, Violeta Parra riuscivano a immedesimarsi così nelle storie che interpretavano. Chavela e la sua vita, poi, hanno dato una speranza a chi come gli lgbt era costretto ai margini della società: ha insegnato che non bisogna mai rinunciare a lottare. Era povera, ubriaca, non aveva da mangiare ma ha mantenuto una dignità incredibile. Era una lottatrice, una guerriera.

 
Perché i documentari hanno assunto una così forte valenza al giorno d’oggi?
Credo sia perché raccontano storie che hanno il potere di spostare l’opinione della gente in maniera inaspettata. Dobbiamo considerare l’epoca di crisi che stiamo attraversando, noi in America ci siamo ritrovati al momento della presentazione del film sotto la presidenza Trump… Abbiamo bisogno di figure «indomite» che ci mostrino come sia possibile vivere in un altro modo. Quando gli spettatori si accostano a personaggi raccontati sullo schermo, magari realmente vissuti come Chavela ad esempio, si chiedono: «se lei è riuscita a farlo, allora posso provarci anch’io».