Dalla finestra della sala stampa si vede il mare: bello, azzurro, calmissimo sotto al sole di fine estate. È uscito per voi, cioè noi festivalieri, ripetono come in un mantra i commercianti del Lido che non ricordano una stagione estiva pessima e disastrosa come questa. Meteorologicamente parlando, perché poi l’economia in crollo è indipendente da sole e pioggia.

La Darsena rimodellata si sta rivelando efficace. Rifatta la struttura, poltrone comode, una qualità di proiezione alta non sono dettagli da poco. Intorno sono stati disseminati sul praticello verdissimo cuscini e punti relax, capita di vedere qualcuno che dorme, un altro che scrive sms, o legge, o semplicemente fissa il cielo finalmente limpido.

«Un’ossessione non è un’emergenza ci devi convivere tutta la vita». Nelle strade di New York, shopping bag, cane lupo al guinzaglio e fidanzato che arranca balbettando la frase sbagliata, l’analista, scatenata Jennifer Aniston, aggredisce l’ennesimo paziente ereditato dalla madre in disintossicazione, un vecchio giudice ossessionato da una giovane call girl che ha il dono di farlo sentire speciale. Lei si chiama Izzy, o Glo Sticks come la conosce lui, è una ragazza bionda, vive a Brooklyn fa la squillo e sogna di essere attrice. Adora Marilyn ma il suo mito è l’irresistibile Holly Golightly di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany.

She’s Funny That Way, ritorno al cinema di Peter Bogdanovich, autore anche della sceneggiatura con la moglie Louise Stratton, è un film magnifico e commuovente, ed erano in molti a chiedersi uscendo dalla proiezione mattutina perché non sia in concorso. Prodotto da Wes Anderson e Noah Baumbach, un cast di nomi eccellenti come Owen Wilson, Jennifer Aniston, la bellissima Imogen Poots, il Will Forte di Nebraska, Rhys Ifans e forte di camei di amici del regista come Quentin Tarantino, Michael Shannon, Tatum O’Neal, Cybille Sheherd, Colleen Camp. C’è pure il geniale Austin Pendleton, star di Ma papa’ ti manda sola? e di altre commedie anni 70, è un omaggio alla screwball comedy di gag, equivoci e battute, e battibecchi. A Hawks e a Ernest Lubistsch che attraversa il film – e lo chiude con alcuni fotogrammi di Cluny Brown (Fra le tue braccia) e alla cinefilia amorosa con la guest star finale – sorpresa ancora più geniale se arriva inaspettata.

La «She» del titolo è appunto Izzy Flinkstein, la bravissima Imogen Poots, divenuta Isabelle – per recuperare la parte dolce di di sé –Patterson, star hollywoodiana (celebrities direbbe Inarritu) in ascesa che racconta la sua storia a una pungente giornalista. E tra i flashback dei suoi turbolenti esordi mescola osservazioni sulla vita, sul caso, sull’amore, sui sogni, magari ogni tanto eccede però come ribatte alle ironie dell’intervistatrice, la memoria non è una videocamera. La sua, e quella di Bogdanovich, è piuttosto una continua dichiarazione d’amore al cinema classico, al gioco di attori, a quell’era d’oro di Hollywood che per il regista de L’ultimo spettacolo è stato il momento più alto nell’immaginario americano.

La fanciulla, soave e sorridente, era una escort ma definirsi una musa per i suoi clienti, li ispirava infatti al punto che erano tutti divenuti dipendenti da lei (la mia droga si chiama Izzy) che credeva nel rosa e che ridere fa perdere calorie (Audrey Hepburn) finisce una sera nella stanza al Barclay di New York di un famoso regista di Broadway , Arnold Albertson coi tempi comici perfetti di Owen Wilson, che passa con lei tutta la notte e poi le regala trentamila dollari per realizzare i suoi sogni, facendosi promettere di non prostituirsi più. Le parla degli scoiattoli e di chi va a Central Park a dargli da mangiare, ma il fatto è che la prima audizione è proprio per lo spettacolo di Arnold, sposatissimo con l’attrice protagonista di tutti i suoi lavori naturalmente ignara dei ripetuti tradimenti del marito.

Tutto accade tra l’audizione che Izzy vince e le prove dello spettacolo fino al suo debutto (non è il Carver di Inarritu ma insomma …) , un intreccio di malintesi e «sliding doors», di porte di albergo che si aprono e che si chiudono, ascensori che salgono troppo in fretta, vendette in scena, siamo pur sempre tra attori, detective privati. E i grattacieli di Manhattan coi ristoranti italiani dove se una coppia si da appuntamento è chiaro che gli altri arriveranno là. La storia la conosciamo già ma poco importa perché senza supereroi e effetti speciali, Bogdanovich ci incolla alla sedie, con riso, emozione, ironia raffinata, un gusto del cinema di pura messinscena, di perfezione lieve e irresistibile.