La mostra Il carro d’oro di Johann Paul Schor L’effimero splendore dei carnevali barocchi – fino al 5 maggio nella Sala delle Nicchie di Palazzo Pitti – è un’affascinante narrazione sulla fantasia barocca in tema di feste. Il racconto delle curatrici Alessandra Griffo e Maria Matilde Simari ruota intorno al Corteo del principe Giovan Battista Borghese per il Carnevale del 1664 di Johann Paul Schor: un quadro che giusto un anno fa veniva acquistato dagli Uffizi e che troverà sistemazione permanente nel prossimo Museo delle Carrozze.
Operoso per gran parte della carriera a Roma, il pittore tirolese si spese sempre in un campionario estremamente largo di espressioni artistiche. Basti addebitare sul suo conto non solo il coinvolgimento in numerosi cantieri berniniani e in svariate campagne decorative al servizio della nobiltà dell’Urbe, ma pure la progettazione di mobili, cornici e carrozze, in un ruolo che oggi definiremmo di designer. Anche nella spettacolare tela con la mascherata Borghese Schor offre traccia della sua singolare versatilità, visto che si presenta nella doppia veste di inventore del carro e di colui che ne ha immortalato la forma trasmettendone memoria illustrata, come lui stesso rivendica nella firma a margine della tela.
Trasformata in palcoscenico, la piazza davanti alla dimora Borghese ospita il passaggio di un veicolo sfolgorante, ricoperto di fiori e piante. È trainato da cavalli alla maniera degli antichi Trionfi e su di esso troneggiano Giovanni Battista Borghese (grande organizzatore della cerimonia e committente del dipinto) con i cognati Agostino Chigi e Gregorio Buoncompagni dei duchi di Sora. Protetto dall’anonimato di un fastoso costume barocco, il terzetto di nobili s’identifica nelle fattezze en travesti delle Esperidi, le leggendarie fanciulle che la favola greca collegava all’undicesima fatica di Eracle. D’accordo col mito, fanno la guardia a una selva rigogliosa di frutti dorati e con loro c’è anche un drago, meccanico e mobile. Intorno, la strada è attraversata da una processione di gentiluomini, anch’essi in veste femminile ed equipaggiati con manciate di confetti e poesie per farne dono ai passanti. A questo punto la tentazione di istituire un parallelo con le sfilate che ancora oggi nel tempo di Carnevale attraversano le strade delle nostre città è fortissima. Gli ingredienti ci sono quasi tutti, se non fosse per la totale assenza di donne. A loro era preclusa ogni partecipazione a questo genere di eventi: lo stupore che avrebbe destato appena sei anni dopo, nel 1670, la sfilata di un corteo di dame capitanate dalla «Mazarinette» Maria Mancini Colonna è nelle cronache dell’epoca.
Nessuna delle opere esposte riesce a competere con la vitalità del quadro di Schor. Di certo non l’Apparato per la nascita del Delfino di Francia a Trinità dei Monti (acquaforte di Dominique Barrière) o la Festa nell’anfiteatro di Boboli per le nozze di Cosimo III con Margherita Luisa d’Orléans (stampa di Stefano della Bella), che nella trasposizione bicolore incisa su carta faticano a restituire, se non in versione ridotta e depotenziata, lo stupore che dovette investire i presenti. Tantomeno si misura alla pari il divertimento a dimensione domestica dei quadretti di Jan Frans van Douven con Anna Maria Luisa de’ Medici e il marito alla corte palatina di Düsseldorf. La meraviglia è un’arma spuntata per i nostri occhi se sguarniti di fantasia.
Nessuna immagine regge il confronto se non il Carosello a Palazzo Barberini in onore di Cristina di Svezia nel Carnevale del 1656 dal Museo di Roma, opera dei pittori Filippo Gagliardi (inventore delle architetture) e Filippo Lauri (cui spetta la figurazione degli oltre duecento figuranti). Nel largo davanti al palazzo di famiglia, i Barberini sfruttano la conversione plateale di Cristina di Svezia al cattolicesimo per celebrare il loro ritorno in auge dopo gli anni difficili dell’esilio al tempo di papa Innocenzo X Pamphilj. Gagliardi e Lauri condensano su tela uno spettacolo durato per ore. Restituiscono una scenografia scintillante, fatta di accenti di luce e dei colori dei costumi e degli altissimi copricapi delle comparse che rievocano lo spirito battagliero degli antichi Romani e delle leggendarie guerriere Amazzoni. Il quadro è accomunato a quello di Schor, oltre che da gusto esaltatorio e sapienza tecnica, anche da una straordinaria coerenza formale e d’atmosfera. Ad ammirarli così da vicino ci è dato di scoprirne ogni personaggio, definirne e individuarne le singole personalità. Nessuna riproduzione potrebbe restituire questo senso di grandiosità: ci sono troppi particolari in essi perché l’occhio possa coglierli in una sola volta. Dentro al catalogo ci vogliono ben sedici foto di dettaglio per attenuare il senso di compressione delle immagini a formato intero.
La mostra abbraccia alcuni tra i motivi conduttori della cultura del Seicento, combinando molteplici livelli di lettura: la festa, le arti decorative, finanche la commedia dell’arte. L’autocelebrazione dei principi romani si nutre, infatti, anche di un sorprendente sapore comico. Nel tempo in cui la commedia all’improvviso era ridotta in Italia a fenomeno popolaresco dequalificandosi su un piano letterario, le sue maschere diventano un prezzemolo nei contesti teatrali seri (abitudine che importa dalla scena spagnola Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX). Così è anche nei due quadri carnevaleschi, dove Arlecchino e compari sgusciano ammiccanti tra la folla e danno una meravigliosa sensazione di libertà. Alleggeriscono la formalità cerimoniale dei sorrisi vacui e immobili della parata ufficiale e fanno del loro meglio per ovviare al contegno ieratico degli aristocratici, schiarendone i contorni retorici.
Non è altro che l’ennesimo capitolo dell’annosa ma attualissima storia del potere che sfrutta la simpatia del guitto. La manifestazione festiva è allora tutt’altro che sregolata: la fantasia sbrigliata della commedia dell’arte è domesticata alle esigenze della propaganda. Giovanni Battista Borghese e i Barberini veicolano il loro messaggio (lo spasimo per la legittimazione popolare) alle masse nelle forme in cui queste possano afferrarlo, ovvero col linguaggio della meraviglia barocca e di una gioia di vivere a buon mercato. «Tutti i nostri sudditi sono felici di vedere che amiamo ciò che essi amano», avrebbe scritto Luigi XIV di Francia. A dimostrazione che le feste e le cerimonie pubbliche furono una questione di prim’ordine nella politica del consenso dell’Europa barocca.