L’Italia ha dissipato in un ristagno ventennale il “dividendo” dell’euro: basso costo del danaro, prezzi stabili, integrazione con l’Europa. Il governo Conte ha arginato la demagogia della destra reazionaria e anti-europea, salvato vite nell’epidemia, allentato il nodo autostrade, ben condotto la trattativa con Bruxelles.

Ma, avendo mancato di farlo quando si presentò alle Camere, urge che avvii un Piano per la crescita dell’economia imperniato su pochi punti forti. Tempus breviatum est, ammoniva Paolo nella prima Lettera ai Corinzi.

La recessione da virus permane grave. Dopo il blocco d’offerta un rimbalzo è in atto. Ma va sostenuto con spesa pubblica qualificata coperta da titoli della Repubblica e dai meno costosi 96 miliardi di prestiti europei (Sure, Bei, Mes per la rinascita di una sanità pubblica allo stremo).

Il Piano deve prendere avvio con risorse da indebitamento produttivo, il tasso d’interesse sui Btp decennali essendo sceso sotto l’1% (sfiorava il 4% a ottobre 2019). Non lo si può rinviare oltre nell’attesa delle ulteriori risorse europee. Cominceranno ad affluire solo fra diversi mesi le donazioni ricomprese nei 209 miliardi previsti, a rigorose condizioni, da Bruxelles. Inoltre il ritorno alla crescita non è solo questione di soldi.

Dato lo spessore dei problemi, il Piano non può non articolarsi lungo più direttrici:

– Investimenti pubblici. A differenza dei pur necessari ammortizzatori sociali moltiplicano la domanda, favoriscono la produttività, si autofinanziano grazie al reddito e al gettito fiscale che nel tempo generano. Vanno scanditi secondo priorità, sociali oltre che economiche. Una sequenza? Sanità, messa in sicurezza del territorio, infrastrutture fisiche e immateriali, cura dell’ambiente ed economia “verde”, istruzione e ricerca, poche grandi imprese pubbliche nei settori chiave disertati dai privati.

– Mezzogiorno. Una rinnovata politica per il Sud, da lustri dimenticato, dev’essere nazionale. Non la si può affidare a “ras” regionali. I sussidi non risolvono. Va concentrato al Sud il grosso degli investimenti della Pubblica amministrazione. Va innalzata in particolare al Sud la funzionalità dei pubblici servizi. Poi, molto dipenderà dalle imprese meridionali e dai cittadini del Meridione.

– Rientro del debito pubblico. Nel 2019 il disavanzo di bilancio, al netto del ciclo recessivo, non era lontano dall’equilibrio. La sua risalita è legata al virus, quindi è sperabilmente temporanea. Mentre si effettuano investimenti pubblici che si autofinanziano, è cruciale perseguire il riequilibrio dei conti: taglio delle spese correnti (gonfiate da forniture esose, trasferimenti alle imprese, assistenzialismo non selettivo, sgravi, sprechi) e taglio dell’evasione, l’osceno bubbone.

Nell’insieme di quei 350 miliardi esiste lo spazio per minori uscite e maggiori entrate. L’effetto negativo sulla domanda globale sarebbe quattro volte inferiore a quello fortemente moltiplicativo degli investimenti pubblici. Il progresso verso il pareggio di bilancio sarebbe favorito dal calo dello spread, che è in corso. Il ritorno dell’economia alla crescita farebbe nel medio periodo il resto, abbattendo il rapporto debito/Pil.

– Nuovo diritto dell’economia. La “esperienza giuridica” (Capograssi, Orestano) ereditata dal passato collide con la ”esperienza economica”, col ritorno alla crescita. Oltre a sfrondare e semplificare è essenziale riscrivere nei contenuti con una semantica chiara (Scarpelli) le parti che maggiormente svantaggiano le imprese sui fronti societario, amministrativo, fallimentare, del processo civile.

– Concorrenza. Mentre si offre loro una cornice giuridica adeguata, alle imprese va imposta la concorrenza: profitti da produttività sì, rendite di posizione non più. Devono affermarsi le aziende che ricercano l’utile attraverso l’accumulazione di capitale, il progresso tecnico, le innovazioni. Devono ridimensionarsi quelle aduse a contare su oligopoli, facili commesse, lucrose concessioni, bassi salari, sussidi, evasione di imposte e contributi. La riallocazione delle risorse postula addestramento e sostegno ai lavoratori che cambiano occupazione.

– Distribuzione del reddito. E’ altamente sperequata, intrisa di povertà. Frena la crescita perché impedisce ai giovani meno abbienti – nel Meridione soprattutto – di investire su se stessi e di recare il loro massimo apporto al progresso del Paese. L’iniquità va corretta con la progressività della tassazione e della spesa pubblica, come pure dischiudendo opportunità a chi ne è privo.

– L’Europa. Nei Trattati, nella politica fiscale, nell’asfittico Statuto della banca centrale, nella cultura di chi governa l’Europa – Germania in testa – deve affermarsi un semplice principio: senza domanda globale non c’è crescita e senza crescita non v’è stabilità, monetaria, finanziaria, produttiva, sociale, geopolitica.

L’ulteriore ritardo di un programma che colleghi ciclo e trend, a cominciare dal suo annuncio, condannerebbe l’Italia al ristagno. Sarebbe imperdonabile.