I docenti del liceo classico Tasso, tra i più antichi di Roma, hanno aperto un grosso dibattito sulle modalità di rientro a scuola pubblicando sul manifesto la lettera «Basta propaganda sulle riaperture». Al centro c’è il nodo della continuità didattica che, sostengono, si può garantire solo riducendo le percentuali di studenti presenti fisicamente a scuola. «Dobbiamo imparare da quello che abbiamo visto a settembre/ottobre», afferma Massimo Pieggi, docente e membro del consiglio d’istituto.

Le mobilitazioni di oggi [ieri per chi legge, ndr] hanno detto: «No alla Dad, torniamo in classe ma in sicurezza». È davvero possibile?

Gli studenti hanno usato slogan diversi e non tutte le rivendicazioni coincidono. O meglio, qui a Roma c’è una specificità: tanti ragazzi, come quelli che frequentano il nostro liceo, non sono scesi in piazza contro la Dad, ma per contestare le decisioni del prefetto Matteo Piantedosi. In particolare i turni di ingresso fino alle 10 di mattina e la compressione dei giorni di lezione da sei a cinque. In alcuni istituti questo significherebbe uscire alle 17 o 18, rendendo ancora più complicata la vita degli studenti. Diritto allo studio significa anche garantire i tempi necessari a fare i compiti, ripetere, preparare le verifiche.

In questi mesi molte proteste hanno chiesto di dare priorità al rientro tra i banchi. La pubblicazione sul manifesto del vostro appello, invece, ha fatto saltare il tappo a prese di parola differenti. Abbiamo ricevuto decine di lettere firmate da migliaia di studenti e docenti che denunciano grande preoccupazione per la didattica in presenza. La comunità scolastica è spaccata?

Più che la didattica in presenza la fonte di preoccupazione è la sostenibilità dell’attuale modello organizzativo. Docenti e studenti desiderano tornare in presenza, ma è necessaria una modalità organizzativa strutturale che permetta una programmazione di lungo termine. Dal rientro in classe tra settembre e ottobre abbiamo visto che la frequenza con percentuali troppo alte è irrealistica. In quei mesi la situazione epidemiologica era migliore e si poteva fare lezione con le finestre aperte. Avere l’80% o il 100% degli studenti in presenza ha comunque provocato quarantene e interruzioni continue. Il problema non è solo per la nostra salute, ma riguarda la didattica e le relazioni con gli studenti. È molto peggio tornare due settimane al 75% e poi dover stare a casa due o tre mesi. Non esistono dati incontrovertibili sul contagio a scuola, ma sappiamo con certezza che quando qualcuno si contagia fuori poi bisogna mettere in quarantena intere classi e rispettivi docenti. E così salta la continuità.

Quindi cosa proponete?

Di tornare in classe con percentuali ridotte in questa fase epidemiologica. Il 75% o il 50% non sono sostenibili. Proponiamo la frequenza al 25/30%, portandola a metà degli studenti solo per le classi del primo anno. Significherebbe far venire i ragazzi due giorni a settimana per non perdere il contatto fisico con la scuola, le relazioni con i compagni e la possibilità di svolgere in presenza attività che non si possono fare da remoto, come le verifiche scritte. Abbassare le percentuali significa ridurre statisticamente il rischio di finire in quarantena, rendere inutili gli scaglionamenti imposti dal prefetto di Roma e anche abbassare la pressione sui mezzi pubblici, che molti studi indicano come luogo privilegiato del contagio. In un quadro simile noi docenti potremmo essere presenti tutti i giorni, facendo una parte di didattica dal vivo e un’altra online, collegandoci dalle scuole.

Vaccinare prima i professori è una soluzione?

Se significa dare priorità al personale scolastico – tutto, non solo i docenti – dopo quello sanitario e gli ospiti delle Rsa può andar bene. Ma non credo sia giusto anteporre chi lavora nelle scuole a medici, infermieri o agli anziani che vivono nelle residenze.